Voci e sensazioni raccolte durante il sopralluogo in Lavizzara e Bavona per visitare le zone colpite dal nubifragio
La grande casa gialla e blu ha resistito contro un fiume in piena e una frana venuta “dalle spalle”. Ma, al suo interno, il fango si è mangiato tutto. Si è preso la cantina, il primo e il secondo piano. I mobili emergono appena dalla fanghiglia. Si scava per cercare di salvare qualche ricordo. Christine ed Elio, i proprietari, trovano un album di famiglia ancora fradicio, ma integro.
Sono loro ad aprirci le porte di quello che resta della propria abitazione, che si trova al Piano di Peccia. È la prima volta che tornano dopo il nubifragio di domenica in Alta Vallemaggia. La coppia era presente quella notte. «Ci eravamo appena preparati per andare a dormire, mentre i nostri figli si trovavano al torneo di calcio, proprio qua dietro casa nostra. La pioggia era tantissima e c’era un vento fortissimo. Eravamo preoccupati per i nostri ragazzi e alle 23 gli abbiamo scritto, chiedendogli se stessero tutti bene – ci racconta Christine, ripercorrendo quegli attimi –. Nel giro di dieci minuti tutto è cambiato. Il fiume è straripato dai propri argini. Ho detto a mio marito: “Andiamocene subito”. Ma proprio in quel momento abbiamo cominciato a sentire i primi sassi picchiare contro la casa. E allora abbiamo capito: dovevamo uscire veramente in fretta».
I due si vestono velocemente, scendono le scale e si dirigono verso la porta d’ingresso; qualcosa però non va: la stanza si è riempita di fango che entra dalle finestre e da sotto la porta. «L’acqua, già alta un metro, ci è venuta addosso. Per fortuna mio marito ha avuto la prontezza di prendermi per mano e correre verso il ponticello da parte a casa. È stata questione di minuti: un tronco è arrivato e se l’è portato via», ci dice la moglie.
Elio prende la parola: «Quando ero piccolo da quel ponte sono caduto e ne sono uscito senza un graffio. È strano da dire ma è come se avesse voluto salvarmi ancora per un’ultima volta».
L’uomo continua a guardarsi attorno, sconsolato. Non riesce ancora a credere a cosa la furia della natura ha potuto fare. In quel punto la famiglia non ha solo la propria dimora, ma anche il magazzino e una stalla, completamente distrutti: «Il lavoro di una vita sparito nel giro di quattro ore. Qui non possiamo più stare dopo tutto quello che è successo. Non riusciamo, ci fa troppo male».
Con noi, a farci da Virgilio in questo viaggio nelle zone colpite, c’è Germano Mattei, che ci scorta con la sua auto. «Qui i danni sono tanti. La profonda voragine che si è creata a pochi centimetri dal campo del Draione fa paura. Ma più su, a Sant’Antonio, è pure peggio!».
E non diceva una bugia. Nella piccola frazione, la via che porta verso le aziende agricole e la cava di marmo è completamente distrutta. Ora, nello stesso punto dove prima passava la strada, c’è un fiumiciattolo.
A Prato Sornico, a pochi metri da quello che resta della pista di ghiaccio, sorge il ristorante garni Lavizzara. Lì, a sistemare bottiglie di acqua da distribuire alla popolazione, scambiamo due parole con Angela e Paola. Entrambe sono samaritane per la Lavizzara ed entrambe sono state in prima linea dal giorno zero per cercare di aiutare la propria comunità.
«All’alba un pompiere mi viene a chiamare a Broglio, dove vivo, dicendomi che in valle c’erano stati diversi disastri e non c’era modo di contattare nessuno dall’esterno, e questo era un grosso problema. Bisgonava prendere contatto con la Rega, avvisarli di cosa stava succedendo e soprattutto servivano rinforzi per quello che stava capitando», spiega Angela. Che continua: «Il nostro è stato un lavoro di squadra. Io, insieme a Mara, un’altra mia collega, e altri, ci siamo rimboccati tutti le maniche. Siamo andati a bussare casa per casa, chiedendo alla gente se stesse bene e se avesse bisogno di qualcosa: acqua, ma anche cibo e i medicamenti a sufficienza. Abbiamo avuto tre-quattro persone che necessitavano di medicamenti urgenti».
Il ristorante in cui ci troviamo ora, domenica e nei giorni a seguire è stato un punto di ritrovo importante: «Sì, abbiamo allestito una sorta di checkpoint. Insieme ai colleghi e amici Katia e Juanito siamo stati un primo punto di riferimento per la popolazione. Al ristorante la proprietaria ha cucinato cibo caldo per tutti, mentre un signore ha messo a disposizione la sua sorgente d’acqua personale», spiega sempre Angela.
«Quella sera io mi trovavo al torneo con i miei figli. Ma poi sono riuscita a scendere e aiutare anche io. Una cosa che devo sottolineare è come la gente abbia risposto a quanto stava succedendo. Ci siamo aiutati e fatti forza a vicenda. Ognugno vuole fare qualcosa. Qui puoi vedere giovani e anziani che prendono la pala e si mettono a ripulire strade e cantine. La Lavizzara è stata colpita, ma ha saputo reagire».
Dopo aver visto quanto la natura ha spezzato in Lavizzara, scendiamo verso il fondovalle. All’altezza di Bignasco, non puntiamo in direzione di Cevio, ma vogliamo andare più a ovest, verso Cavergno, e poi la Bavona. La strada, per i non addetti ai lavori, è ufficialmente chiusa. Ma se si lascia la macchina all’imbocco della valle, resa celebre dai racconti di Plinio Martini, si può proseguire a piedi. Ci attende circa una mezz’ora di cammino per raggiungere Fontana, una delle dodici “terre” (così vengono chiamate le frazioni che compongono la Valle Bavona), quella oramai resa simbolo dalla frana che l’ha ferita. Lungo la strada vediamo alcuni operai dotati di escavatore; già poco prima di Mondada la via è interrotta in più punti da colate di sassi. Ci guardiamo attorno, oltre al corso del fiume, che pure qua è drasticamente cambiato, ci sembra mancare qualcosa.
«Stai cercando la cappelletta degli australiani? Non c’è più, è sotto quei cumuli di pietra», ci informa Mattei. Il tempietto in questione è stato realizzato nell’Ottocento ed è dedicato all’Addolorata. La cappella-rifugio fatta edificare dagli emigranti in Australia nel 1854. Proseguiamo ancora e ci troviamo davanti uno scenario impressionante: la strada è bruscamente interrotta da una gigantesca massa di sassi. L’asfalto è crepato e forma profonde onde nel terreno, pare essere stato crivellato di colpi. Iniziamo ad arrampicarci fra le pietre, per raggiungere l’agglomerato di case.
In questa distesa di sassi e detriti è difficile orientarsi, capire dove ci si trovi esattamente e ricordarsi com’era prima. Su quanti metri di materiale poggiamo i piedi? Sette-otto metri o forse più? Non lo sappiamo. Alcune case sono state letteralmente sventrate. In alcune si vede quel che resta degli interni, di una in particolare pure un armadio aperto, e in esso sono ordinatamente riposti dei vestiti.
Mentre ci muoviamo troviamo una radiolina verde menta, tutta rotta a volerci ricordare che qui non stiamo calpestando solo legna e pietra, ma anche gli effetti personali di decine di persone. Nel nostro vagare incontriamo (o meglio rincontriamo, la prima volta lo abbiamo conosciuto domenica, a Cevio, fra gli sfollati) Michele, un sopravvissuto di quella notte: «Tutto è cominciato attorno all’una e mezza. Qui non cascavano massi, ma asteroidi. Li vedi quei sassi enormi? Ecco, io li ho visti cadere dal mio balcone – ci racconta –. A salvarmi è stato quel cuneo di montagna, che ha deviato la frana. Sì, se oggi sono qui a parlare con voi è grazie a quello».
Fontana in un lontano passato era già stata vittima delle calamità naturali. Infatti, nel 1594, una frana gigantesca la distrusse completamente. Per ricordare quella sciagura, su un masso venne incisa la scritta “Giesu Maria, qui fu bela campagnia”. Mai telegrafica frase suonò più profetica.