La Guarda di finanza e l’Agenzia delle Entrate continuano la loro offensiva fiscale unilaterale nei confronti dei soci italiani delle Sagl con sede in Ticino. Questo modo di procedere desta più che una perplessità, tant’è che anche la politica italiana si è recentemente mossa con degli atti parlamentari per arginare un peggioramento dei rapporti tra i due Paesi, dopo che alcuni deputati svizzeri avevano acceso i riflettori sulla faccenda, chiedendo lumi al Consiglio federale. La presunzione italiana che i frontalieri, titolari di Sagl, e sino ad ora sempre tassati esclusivamente in Svizzera sul reddito del lavoro dipendente per effetto della disciplina fiscale prevista dall’Accordo sui frontalieri, stiano aggirando le norme italiane, a loro modo di vedere, troverebbe giustificazione nel fatto che “nessuno può essere sottoposto a sé stesso”. Ne conseguirebbe il disconoscimento del requisito del lavoro dipendente e, di conseguenza, non potrebbe applicarsi l’Accordo sui frontalieri.
Se su questa riqualificazione ci siamo già espressi, la perplessità aumenta se consideriamo la qualificazione del reddito da parte dell’Agenzia delle Entrate. Ci giunge notizia che gli approcci seguiti sarebbero diversificati in ragione della tipologia di contribuente. Una tra le ultime concerne il disconoscimento del rapporto di lavoro in mancanza della subordinazione tra socio e società, ma paradossalmente – allo stesso tempo – l’Agenzia qualifica il reddito come quello di un amministratore, il quale per sua stessa natura soggiace al criterio della subordinazione. Frattanto, il titolare della Sagl che, ritenendosi vecchio frontaliere e, in quanto tale, esentato dagli obblighi dichiarativi in Italia sul reddito da lavoro dipendente, si trova gravato da sanzioni amministrative e penali ai fini delle imposte sui redditi, rispettivamente sanzioni per non avere inserito le attività finanziarie estere nel quadro Rw per quanto attiene agli ultimi cinque periodi d’imposta.
E come si giustifica l’Amministrazione finanziaria italiana? Il socio avrebbe, a suo dire, conseguito un vantaggio fiscale non indifferente: tassazione minima come lavoratore dipendente in Svizzera rispetto alla tassazione in qualità di amministratore pari ad almeno il 30%. Questa giustificazione, tuttavia, nasconde una serie di contraddizioni giuridiche. Nel caso della riqualifica in reddito da amministratore, la Guarda di finanza, nei suoi verbali di constatazione, ha evidenziato più volte che queste attività potrebbero essere qualificate come lavoro autonomo (cioè reddito da attività lucrativa indipendente). Se così fosse, tale provento dovrebbe essere imponibile soltanto in Svizzera, in base all’articolo 14 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra i due Paesi (Cdi). Il risultato, pertanto, non cambierebbe di molto rispetto alla tassazione come lavoratori frontalieri, anch’essi imponibili soltanto in Svizzera. Ma la “sottile” differenza starebbe nella necessità di restituire i ristorni che i Comuni italiani avrebbero percepito indebitamente, non applicandosi più per queste casistiche l’Accordo sui frontalieri. Per cui, per evitare questo boomerang, l’Italia ha qualificato tali redditi come “assimilabili al lavoro dipendente” e, meglio, come redditi riconducibili alla direzione e all’amministrazione di società estere. Questi, secondo la Cdi (articolo 16), sono imponibili in Svizzera, ma devono pure essere dichiarati in Italia, mancando l’inciso “soltanto” (cd. imposizione concorrente). Ma c’è di più: non essendo tali redditi stati dichiarati in Italia, l’Agenzia delle Entrate nega anche la deduzione delle imposte svizzere da quelle (maggiori) italiane (cd. credito d’imposta) in barba ai principi convenzionali.
Le interpretazioni fornite dall’Italia sono molto discutibili, specie adottando un approccio confuso e giuridicamente scoordinato. Finita l’era del segreto bancario e delle black list, ora le Sagl svizzere sembrano essere il nuovo pomo della discordia. Si tratta, ancora una volta, di un’azione unilaterale, intrapresa e proseguita senza alcun confronto con la Svizzera. Quel che è certo è che i rapporti tra i due Paesi, se questo è l’approccio italiano, sono destinati a tornare tesi.