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Machiavelli a Mosca

(wikipedia)

È molto probabile che Vladimir Putin tenga sul suo comodino Il Principe di Niccolò Machiavelli, opuscolo che il segretario fiorentino redasse nel 1513, con dedica a Lorenzo II de’ Medici (nipote del Magnifico). Un’opera che da secoli seduce sovrani e autocrati di ogni risma e colore, letto e riletto da schiere di esegeti, esaltato come prontuario per conquistare e mantenere il potere, oppure esecrato come espressione di uno spirito tanto ambiguo quanto perfido.

Già parzialmente noto in Russia nel Seicento, soprattutto nella sua versione francese, il Principe conobbe una larga diffusione sull’onda della traduzione integrale, che avvenne nel 1869. Dopo di allora le raccomandazioni di Machiavelli occuparono le menti prima degli zar e successivamente dei rivoluzionari bolscevichi, da Lenin a Stalin. Particolare influenza devono aver esercitato i capitoli 17 e 18, là dove il segretario discorre dei metodi per conservare il potere. E qui, insiste Machiavelli, non bisogna esitare, quando occorre, di intervenire col pugno di ferro per ristabilire l’ordine, dato che il principe "con pochissimi esempi [atti esemplari] sarà più pietoso [più umano] che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’ disordini di che ne nasca [da cui possono scaturire] occisioni o rapine". Non è questione di buon cuore, insomma, ma di ragion di Stato: "Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità". Il sovrano che lasci correre o si intenerisca perderà il suo dominio, perché gli uomini sono malvagi ("tristi") e non aspettano che il momento giusto per spodestare il regnante che si mostri debole o "effeminato". Attenzione però: la crudeltà dev’essere "bene usata", e non elevata a pratica terrorizzante: la violenza indiscriminata genera soltanto sete di vendetta, e un principe saggio deve "ingegnarsi di fuggire l’odio" dei sudditi. Farà quindi bene a non impadronirsi della loro "roba" e delle loro donne, giacché "gli uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio". Al fine di contrastare le mire dei rivali occorre possedere la forza del "lione" e l’astuzia della "golpe" [volpe], alternandole in base alle circostanze, e in ogni caso "è molto più sicuro essere temuto che amato".

Immaginiamo allora Putin rifarsi a Machiavelli nell’elaborare piani per ridurre al silenzio gli oppositori interni, avvelenandoli (metodo ben noto all’epoca delle corti rinascimentali), oppure imprigionandoli in condizioni disumane, com’è stato il caso per Navalny (e anche di moltissimi altri di cui non conosciamo la sorte). In questo caso ha vestito i panni del "lione", senza però trascurare la ricerca del consenso attraverso elezioni preventivamente addomesticate per non inimicarsi il popolo (manovra della "golpe").

Pure da Machiavelli avrà appreso a non fidarsi delle truppe mercenarie, infide e pericolose per le motivazioni di cui si nutrono. Affidarsi al mercenarismo non sarà mai un’operazione stabile e sicura, poiché quelle milizie sono "disunite, ambiziose, sanza disciplina, infedeli, coraggiose fra gli amici e vili fra i nemici: vogliono bene essere tuoi soldati mentre che tu non fai guerra, ma, come la guerra viene, o fuggirsi o andarsene". I capitani di questi eserciti, se sono esperti di cose militari, aspireranno a sopraffare te che sei il loro padrone. Meglio dunque "spegnerli" prima che sia troppo tardi, com’è avvenuto con il comandante del gruppo Wagner Prigožin, vittima di un attentato mentre era bordo del suo aereo in volo verso San Pietroburgo.

Considerato, dalla critica, il fondatore della scienza politica moderna, Machiavelli ha attraversato i secoli, di volta in volta ammirato o detestato, campione di realismo per gli uni, modello di ignominia per gli altri. Ignorare la sua opera, la sua influenza, il suo approccio non è tuttavia possibile. Dalle sue pagine emerge come un mostro marino il volto demoniaco del potere. Come Francesco De Sanctis ebbe a sottolineare nella sua Storia della letteratura italiana (1870-71), in quel trattato "ci sono i diritti dello Stato: mancano i diritti dell’uomo". De Sanctis credeva nel progresso e nell’avvenire, ma anche qui con un eccesso di fede, come poi si vide.

Da un lato il realismo, dall’altro l’idealismo: due fratelli gemelli che tuttora coabitano combattendosi, sia nello spazio politico collettivo, sia nella coscienza individuale; due poli che rappresentano l’uno la ragion di Stato, ovvero l’interesse superiore indifferente alla morale, l’altro la vocazione umanitaria, anti-cinica e pacifista.