L’immagine complessiva dell’ultima elezione di magistrati che rimarrà nella memoria dei ticinesi è desolante. La responsabilità pesa su molti: su persone nelle istituzioni, su persone grottescamente alla ricerca di visibilità o di rinnovata notorietà, nelle istituzioni e fuori da queste. La zuffa iniziata sui media giorni prima del voto del Gran Consiglio, con le polemiche – oggettivamente legittime, per come sono state illustrate – per l’eventualità del prevalere d’interessi privati su quelli generali nel proporre candidati, ha lasciato sul campo anche vittime innocenti: candidati vilipesi, con la sola colpa di essersi proposti per la carica; il terzo potere dello Stato, per il quale questi – nonostante tutto e malgrado tutti infine eletti – andranno a operare gravati però dall’onta di una solo presunta inettitudine ad assumerla. In molti hanno voluto dire la loro; nell’aula parlamentare, in talk show a proporre ricette e con apparizioni perfino intimidatorie sui media. La Costituzione ticinese voluta dal popolo, tuttavia, non si presta a interpretazioni. I procuratori pubblici e taluni giudici sono eletti dal Gran Consiglio. Che questi lo siano, come la Costituzione precisa, previo concorso pubblico e dopo che una commissione, voluta indipendente ma anch’essa di nomina parlamentare, ha esaminato e preavvisato le candidature, in nulla muta il principio: l’elezione in votazione dei procuratori pubblici e di quei giudici è un preciso compito del parlamento, a sua volta eletto da quello stesso popolo di cui è l’emanazione. Volere e immaginare che l’elezione possa sfuggire totalmente alle logiche di rappresentatività e dei rapporti di forza numerici fra i partiti è dunque per principio errato e illusorio. Semplicemente perché la Costituzione, con il meccanismo che prevede, non può che aspirare al contrario, confidando nell’equilibrio, nella serietà e nel buon senso del potere legislativo nell’applicarlo sulla base di tali presupposti.
Il problema, dunque, non può stare nelle regole o nel meccanismo in quanto tale, bensì semmai nell’incapacità di chi è chiamato ad applicarli: del parlamento e dei partiti, che lì sono rappresentati. Dunque, il volere cambiare un sistema voluto dal popolo piegandolo davanti all’incapacità del parlamento d’assumersi, nell’interesse collettivo, nella sostanza ma anche nella forma, un preciso suo compito, passa necessariamente dall’ammissione di una pesante colpa delle istituzioni. Nella babele di rapporti, iniziative e atti parlamentari con cui si suggerisce o si chiede una modifica di quel sistema, sarà comunque difficile trovare una soluzione che possa accontentare tutti e tutti gli interessi che li sorreggono. Più difficile sarà però dapprima ammettere che il problema non sta nella Costituzione, bensì appunto altrove. Frattanto, i ticinesi si meritano delle scuse.