L'ospite

Il partito sono io

(Ti-Press)

Molti hanno espresso stupore, e a volte condanna, per la proliferazione delle liste e sotto-liste presentate alle federali. Da un punto di vista storico-analitico la sorpresa è invece relativa. Da tempo siamo immersi in un clima che possiamo definire del frammento, delle micro-identità, del partito su misura, con tratti anche narcisistici. Siamo di fronte alla disgregazione di una tradizione che per secoli ha dominato l’Occidente politico, alle conseguenze dello sfaldamento delle grandi famiglie ideologiche: liberalismo, socialismo, popolarismo. Famiglie che prima sapevano aggregare, indirizzare e anche dare un senso alle istanze della società civile, e che ora si ritrovano isolate e immalinconite, con un corredo ideale ignorato dai più. Ecco allora farsi largo le rivendicazioni dei singoli gruppi, suddivisi per mono-culture: l’ambiente, il genere, l’orientamento sessuale, la fascia di età. Trionfa la differenza, a scapito dei legami superiori, quel mastice che storicamente ha permesso alla Confederazione di mantenersi unita e di avere un occhio di riguardo per le minoranze. L’Io prevale sul Noi, il singolo sulla collettività.

Il principio della differenza seduce e mobilita, ma non è sempre sinonimo di progresso. Anzi, spesso finisce per collidere con l’altro cardine-chiave dei movimenti di sinistra: l’uguaglianza. Insistere acriticamente sulla diversità vuol dire anche enfatizzare concezioni conservatrici come il caso particolare («Sonderfall») e come la via solitaria nelle relazioni con l’estero («Alleingang»), zoccoli strategici su cui la destra nazional-populista ha costruito le sue fortune. L’iniziativa per ancorare nella Costituzione il principio della «neutralità permanente» va in questa direzione. Ed è molto probabile che popolo e cantoni la accoglieranno in votazione popolare. Di qui la costernazione delle vecchie famiglie politiche, costrette a fare i conti con una discendenza che parla un’altra lingua e sfoglia un altro vocabolario, fitto di «-ismi» dall’aria minacciosa, come populismi, nazionalismi, sovranismi.

Ma torniamo all’irruzione del «particulare» nella vita politica. Una tendenza favorita sia dal voto proporzionale (un sistema che premia anche i gruppi minori), sia dall’esplosione delle tecnologie dell’informazione. Onnipresenti e pervasivi, i media digitali consentono a tutti di intervenire nel dibattito pubblico; di esprimere opinioni, organizzare petizioni, avviare campagne di mobilitazione. Ognuno può dire la sua e quindi sentirsi in qualche modo protagonista, aggirando i filtri predisposti dalle gerarchie dei partiti e delle associazioni. Un processo chiamato «disintermediazione», praticato con l’intento di mettere fuori gioco i funzionari-sensali, i dirigenti che non ascoltano, i capibastone che ordinano senza consultare la base. Ma anche qui, come nel caso della differenza, i risultati non sono sempre positivi, come sostengono gli alfieri della democrazia diretta via telematica. Gli esperimenti condotti in Italia dal Movimento Cinque Stelle (piattaforma Rousseau) consigliano prudenza e vigilanza per non fare in modo che dalle ceneri dei vecchi attori – partiti, sindacati, corporazioni – non nascano oligarchie ancor più sorde ed esclusive.

Il sistema dei partiti, così come si è andato formando dall’Ottocento in poi, fatica a reggersi in piedi, e non soltanto perché le forze concorrenti, autodefinitesi libere e prive di condizionamenti, lo bersagliano da ogni lato. Le accuse (autoritarismo, meccanismi di cooptazione, poltronismo, scarsa trasparenza) sono spesso giustificate. Non è però detto che le alternative finora messe in campo, fondate sull’esaltazione delle rivendicazioni settoriali e sul leaderismo digitale, siano migliori e più democratiche. Azzardiamo affermare che in passato giornali, congressi e conferenze programmatiche garantivano un confronto qualitativamente migliore, più ragionamenti e meno slogan. Ma forse è solo nostalgia…