Sono finiti i partiti di massa che tenevano insieme milioni di persone intorno a un’idea e a una bandiera
Le elezioni si avvicinano: gli aspiranti si autocandidano con discrezione oppure con piglio reboante. L’armonia fra i candidati, a destra e a sinistra, non regna sovrana; dalle parti del centro interclassismo e inclusività sono parole ripetute, ma galleggia le tentazione liberista che non è una buona premessa. E i partiti? Una volta guidavano, disponevano, comandavano, ora non più: evanescenti e sbiaditi, ai margini. È la politica personalizzata: in primo piano non vi è più il partito ma vi è la faccia più o meno rassicurante del candidato leader, che deve saper comunicare e assecondare e interpretare i flussi emozionali e gli umori del momento. Aiutano alcune espressioni dell’antipolitica. Perfino Tony Blair, da primo ministro, dichiarò "non sono mai stato veramente parte della politica" e anche Obama non lesinò aspre critiche a "quelli di Washington". Questa politica delle persone è fatta di tanta comunicazione, di social, televisione, radio e stampa: più delle idee si vota l’immagine.
I partiti sono ancora qui, ma la loro funzione è mutata: "Perdita di rilevanza funzionale", annunciano gli esperti. Sono finiti i partiti di massa che tenevano insieme milioni di persone intorno a un’idea e a una bandiera. Sono finiti i partiti che, esclusivi tutori ed educatori della società civile, dettavano comportamenti e modelli di socializzazione. Sono finiti anche perché è in dissoluzione l’elettorato di appartenenza che votava sempre lo stesso partito a prescindere dalle persone o dal programma. I partiti insomma non sono scomparsi: semplicemente sono diventati un’altra cosa. Si collocano a metà strada fra il vecchio e il nuovo: d’un canto si sforzano di conservare la ritualità della bandiera per risvegliare le antiche passioni perché, in una certa misura, le tradizioni politiche continuano a orientare i comportamenti; dall’altro sono costretti a fare i conti con gli stati d’animo di un elettorato fluido, che cambia in continuazione e li costringe a rincorrere il consenso. È un dato di fatto: i partiti storici non sono più in grado di suscitare un’identificazione duratura fra loro e i cittadini. Alla militanza di un tempo si è sostituita la diffidenza, l’estraneità, l’insofferenza.
"I rapporti fra i membri del partito saranno naturalmente quelli tra amici che si amano e si stimano, per il fatto di ispirare la propria vita alla stessa idealità…": così esordiva il documento costitutivo del partito novecentesco (citato da Valentina Pazé, filosofa della politica). Incongruente nei partiti attuali: oggi si inneggia al pragmatismo, gli ideali scarseggiano e quel che conta è occupare le poltrone.
Che i partiti storici non siano più riconosciuti come riferimenti credibili di rappresentanza della società civile lo attesta l’assenteismo. Eppure – e sta qui il paradosso, o forse è la conseguenza della perdita di centralità nella politica – i partiti hanno rafforzato la loro presenza nelle istituzioni, nella gestione e nella distribuzione delle risorse dello Stato. Il colore politico più che mai la fa da padrone nelle commissioni statali e parastatali e negli impieghi pubblici e la sponsorizzazione partitica è un viatico indispensabile. In questi casi il principio meritocratico assume una colorazione sospetta. Il glorioso manuale Cencelli – quello della ripartizione di sgabelli, sedie e poltrone in base al peso dei partiti – trova ancora convinti seppur inconfessati assertori.
Era così anche nel passato, ma allora vi era una contrapposizione ideologica feroce che in qualche modo giustificava lo spietato Spoil System (quello che indicava ai nemici politici la via dei mari). Oggi i partiti novecenteschi, i partiti ideologici, non ci sono più ma è rimasta la logica partitocratica.
La disconnessione dei partiti dalla società civile è peraltro dimostrata dall’insistente pratica dei sondaggi voluti per carpire l’orientamento dell’elettorato: impensabile in altri tempi, quando il partito formava e informava. Oggi le cifre sull’assenteismo diffuso riconoscono che un numero consistente di cittadini considera inutili la politica e i politici. La politica è vista sempre meno come qualcosa che appartiene al cittadino e sempre di più come qualcosa nelle mani dei politici. Si fa strada l’idea che i partiti siano dannosi e che i cittadini debbano esprimersi direttamente senza la loro mediazione. Questo indebolimento dei partiti come strumento di formazione della domanda politica (elaborazione di idee, di programmi, di orientamenti) – ce lo dice lo studioso Sabino Cassese – ha un’infelice conseguenza: produce personale elettivo impreparato. Conviene riparlarne.
Intanto osservo che negli ultimi decenni, mentre le distanze fra partiti e cittadini elettori sono aumentate a dismisura, le differenze fra i partiti storici (post-ideologici si sono definiti e non sono sicuro che sia un passo avanti) si sono affievolite; a tal punto da concepire, per restare a casa nostra, possibili matrimoni tra formazioni una volta inconciliabili. Il conflitto tra i partiti si è in parte trasferito all’interno dei partiti: di fronte agli elettori-spettatori i candidati cercano di distinguersi non per le idee comuni, bensì accentuando le differenze. Non sempre lo spettacolo è fra i migliori. Ma è la logica della politica personalizzata.