Quest’ultima guerra in Europa ha dato ossigeno alle due tesi sul modo di intendere la copula tra economia e politica: la tesi del capitalismo liberale e la tesi dei capitalismi dispotici. Il capitalismo è evoluto a modo di produzione tecnico che non ha che una caratteristica sostanziale, a parte la dirigenza che da un lato permette un’accumulazione più privata e dall’altro un’accumulazione utilizzata diversamente. Lo faceva notare qualche mese fa anche Gerardo Rigozzi dissertando sulla democrazia liberale occidentale che ci differenzia dalle società dove governa l’autocrazia illiberale (Il valore della libertà, Regione 23.6.2022).
Il capitalismo è, a mio modo di vedere, una mostruosa escrescenza della Modernità che mette più che mai al lavoro il mondo tutto intero. Cerco di evitare l’astrazione e nomino alcune varianti reali che sono modelli documentabili: il capitalismo liberale che è la nostra economia discussa ogni dì, il capitalismo di stato di tipo sovietico, il capitalismo oligarchico putiniano, il capitalismo monadico cinese. Dico che lo scenario è il mondo perché è opportuno riflettere con Emanuele Severino. In quel comparto logico che è il pensiero del filosofo, convinto dell’estinzione della società umana e osservatore del nostro tempo come "tempo della pienezza della follia", troviamo interpretazioni e previsioni che non sono una bazzecola. Prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica ne aveva visto il fallimento a causa della conduzione rigidamente scientifica della produzione e aveva detto che "la società neocapitalista è il futuro della società comunista". La struttura tecnica dei capitalismi è oggi l’apparato scientifico-tecnico, l’insieme degli strumenti organizzati secondo i criteri della razionalità scientifica, che Severino vede confluire nella tecnica "di cui ci si vorrebbe servire come mezzo, ma che tende a costituirsi come apparato planetario sempre più libero dal frazionamento conflittuale a cui le forze (ideologiche) lo riconducono". Il capitalismo come sistema di eccellenza nella creazione di profitto si trova su un piano inclinato: "Il capitalismo tramonta, perché è costretto, prendendo coscienza del proprio carattere autodistruttivo, a darsi un fine diverso dal profitto, cioè la salvaguardia della base naturale della produzione economica e la salvaguardia della tecnica".
Il capitalismo ha sempre tolto il lavoro manufatturiero precedente, arricchito una minoranza utilizzando il lavoro, defraudato la natura delle sue risorse, mirato all’imprescindibile accumulazione di se stesso, fomentato lo spirito di competizione. Una parte dell’opinione contemporanea accusa le distopie della comunità mondiale (disuguaglianze sociali, degrado ambientale), che per noi post-illuministi significa anche ridiscutere alla luce dei fatti e senza tregua la triade già enunciata e praticata "libertà-eguaglianza-fraternità". Rigozzi nell’atmosfera della riaccesa tensione Est-Ovest dice: "Il valore della libertà viene posto in primo piano allorquando c’è il rischio di perderla". Convengo senz’altro. Ma, con la pretesa di dar voce a una gran parte della moltitudine, si può sempre ancora dire: il valore dell’eguaglianza viene posto in primo piano allorquando essa arrischia di allontanarsi ulteriormente. È palese e dimostrato che il pensiero liberale tende a sostenere con intensione la libertà, la cui quintessenza è la libertà d’impresa. Sebbene il liberalismo in origine mettesse un argine al profitto illimitato e incontrollato, il pensiero liberale del capitalismo attuale totalizzante vede solo la sua libertà.