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Tre uomini in barca (per tacer dell’Europa)

La foto dei migranti aggrappati al timone d’una petroliera è solo l’ultimo simbolo d’un fenomeno sul quale la politica mostra opportunismo e indifferenza

(Keystone)
30 dicembre 2022
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Da lungo tempo il mare continua a portare e inghiottire migranti. L’ultima immagine in arrivo dalle Canarie – tre profughi stremati aggrappati al timone d’una petroliera, sul quale sono rimasti per gli undici giorni del lungo viaggio dalla Nigeria – è solo l’ennesima rappresentazione d’un fenomeno che in realtà investe anche il Mediterraneo, e finisce – quando finisce relativamente bene – sulle coste europee. La natura plateale del tema si presta ovviamente alle strumentalizzazioni politiche, ma è altrettanto chiaro che politica dev’essere anche una soluzione a quella che non è mai stata ‘solo’ un’emergenza temporanea: si stima che dal 2013 siano annegate 25mila persone soltanto nel Mediterraneo, oltre 1’400 quest’anno. Se poi "il mare non ha paese nemmen lui", come sosteneva Verga, il problema sulle sue rive rimane trovare soluzioni efficaci e condivise: per orientarci meglio ne parliamo con Claudio Bertolotti, direttore del centro di analisi strategica Start InSight di Lugano e dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT), oltre che fellow dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi).

Che fare?

Anzitutto capire appunto che non si tratta di un’emergenza, bensì di un fenomeno strutturale che si verifica da decenni: cambiano numeri e Paesi di provenienza, ma non le rotte. La pericolosità di questi attraversamenti è ingigantita dal fatto che tutte le loro fasi sono gestite da organizzazioni criminali come quelle libiche, spesso in stretta collaborazione con mafie internazionali quali quelle italiane.

Possiamo dire che l’Unione europea, invece di affrontare queste collusioni, ha finito per rendersene complice, in particolare attraverso il supporto finanziario garantito alla Libia e alla sua piratesca Guardia costiera?

La Libia è di fatto fuori controllo e le organizzazioni criminali hanno colonizzato la gestione dei confini, che una volta veniva controllata dallo Stato: Gheddafi utilizzava i flussi migratori come arma per esercitare pressione politica sull’Italia e l’Europa. Ora è diventato un business in cui la Guardia costiera ottiene denaro collaborando sia con le organizzazioni criminali, sia con l’Unione europea che ne garantisce la sopravvivenza logistica ed economica. Questa ambiguità rende problematici i meccanismi europei di delega come risposta a un fenomeno che non si riesce a gestire, ma anzi si finisce per alimentare.

Come reagire?

L’Ue dovrebbe anzitutto avviare una politica di ingressi strutturati e formali corridoi umanitari invece di agire su base emergenziale come ora. Per questo è opportuno anche garantire un’equa distribuzione sul territorio europeo, mentre oggi il meccanismo di Dublino (che almeno teoricamente impone la registrazione dei migranti nel Paese Ue di primo ingresso, ndr) e il mancato rispetto degli accordi di Schengen da parte di questo o quello Stato – pensiamo alla Francia – scaricano l’onere della gestione sui Paesi costieri: si stima che in Italia mezzo milione di persone si trovi in un limbo in cui non ha diritto all’asilo secondo le leggi vigenti, ma nemmeno può muoversi se non clandestinamente all’interno della stessa Europa.

Il nuovo governo italiano di Giorgia Meloni pare avere in mente due soluzioni: la creazione di ‘hotspot’ diplomatici nei vari Paesi africani per gestire più ordinatamente i flussi e la possibilità per i migranti soccorsi dalle navi di presentare domanda d’asilo ancora a bordo, rivolgendosi al Paese ‘di bandiera’ dell’imbarcazione. In cambio l’Italia – ha spiegato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi – garantirebbe lo sbarco invece di ostacolarlo com’è accaduto ultimamente. È possibile?

La creazione di ‘hotspot’ diplomatici nei vari Paesi africani è un’opzione molto ragionevole, pur essendo complicata. Al contrario, credo che l’ipotesi di richiesta d’asilo "a bordo" non sia perseguibile: non si possono espletare in nave queste pratiche e la procedura spetta alle autorità nel porto più vicino e più sicuro, a prescindere dalla bandiera della nave. Questo detta il diritto internazionale del mare, che si potrà anche cambiare – ad esempio per ridefinire concetti come quello di ‘naufraghi’, non sempre appropriato ai casi correnti di soggetti che si mettono consapevolmente in mare –, però intanto va rispettato. Va detto d’altronde che il tentativo di contenere invece i flussi con accordi in ultima analisi controproducenti, specie con la Libia, non è cosa di oggi: i governi di centrosinistra di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni non hanno costituito particolari eccezioni in questo senso.

Quanto incide sulla questione lo specifico profilo giuridico dei migranti?

Circa l’80% non ha diritto allo status di rifugiato e di protezione internazionale, né è loro riconosciuto quello di soggetti politicamente vulnerabili. Parliamo di migrazione economica, dove però si intende una provenienza da Paesi disastrati, una situazione che si dovrà pur decidere come considerare ai fini del diritto all’accoglienza, specie se si intende garantire l’integrazione. Anche in questo caso si tratta di una scelta politica, che però va fatta, se non si vuole continuare a intervenire a valle invece che a monte della questione.

Nel frattempo, però, si direbbe che il governo italiano preferisca i gesti estemporanei a favore di telecamera: ad esempio il blocco delle navi delle Ong, accusate senza alcuna prova di ‘attirare’ i migranti – il cosiddetto ‘pull factor’ – e di accordarsi con gli scafisti. Anche il decreto-legge approvato mercoledì potrebbe complicare il lavoro di queste associazioni.

La maggior parte degli arrivi avviene in seguito al soccorso di attori quali la Marina e la Guardia costiera italiana, oltre a navi di altri Stati. Le navi delle Ong eseguono una porzione minoritaria dei soccorsi, tanto più che ormai è aumentato il numero di sbarchi autonomi: non più o non solo le ‘carrette’ che si spingevano al largo in attesa di soccorsi, ma navigli più efficienti che trasportano fino a riva chi è in grado di sostenere spese superiori per il trasporto. Si è scelto di concentrarsi sulle Ong in quanto soggetti terzi, visto che sarebbe stato controproducente criticare la flotta che rappresenta le stesse istituzioni italiane, come la Guardia costiera e la Marina militare. In ogni caso la legge impone il soccorso. Resta però il fatto che l’Italia, come la Spagna, deve pur poter gestire la sicurezza e il controllo dei confini e poter fare affidamento sull’Unione europea.

Ultimamente – in Italia nel caso più recente, ma non solo – ha ripreso piede anche l’opzione "aiutiamoli a casa loro". Si è recentemente parlato di un Piano Marshall per l’Africa, invero assai vago e insignificante nelle risorse ipotizzate (50 miliardi che dovrebbe versare l’Ue per un continente il cui Pil ammonta a oltre 2mila miliardi e che conta più di 1,2 miliardi di abitanti). Queste operazioni hanno un senso, o sono solo un modo per buttare la palla in tribuna invece di affrontare il discorso in modo più serio e costruttivo?

L’"aiutiamoli a casa loro" è tirato spesso fuori dal cilindro, anche a beneficio di un pubblico distratto e in parte incattivito. La migrazione però è legata anche alla capacità economica di spostarsi: chi se ne va non appartiene alla fascia in assoluto più povera nei Paesi africani, ma ha una disponibilità che per quanto minimale consente di pagarsi il viaggio. Paradossalmente, questo "aiutiamoli a casa loro" potrebbe dunque aumentare i flussi invece di tamponarli. Diversa sarebbe una collaborazione strutturale per lo sviluppo, tale da rendere le prospettive economiche in patria così promettenti da invogliare le persone a rimanere nei loro rispettivi Paesi. Si tratta però di obiettivi a lungo termine e condizionati dalle variabili di ciascuna nazione, per cui in nessun caso questi progetti costituiscono un’alternativa a una politica migratoria più efficace e lungimirante.

Lei ha intitolato il suo saggio più recente ‘Immigrazione e terrorismo: i legami tra flussi migratori e terrorismo di matrice jihadista’ (edizioni Start InSight). Chi sostiene una politica di frontiere chiuse cita tra gli altri argomenti proprio quello del cosiddetto "jihadismo d’importazione". È un problema reale?

In realtà il titolo è quasi una provocazione: la conclusione è che i numeri di jihadisti ‘importati’ è talmente basso – e la correlazione statistica come pure la causalità sono così indimostrate e indimostrabili – che pretendere di bloccare i flussi con l’obiettivo di combattere il terrorismo non avrebbe senso. Semmai, a preoccupare dev’essere il legame tra viaggi dei migranti e criminalità organizzata, spesso associata a gruppi terroristici, ormai divenuta il secondo business libico dopo quello del petrolio. Ragione in più per affrontare il fenomeno in modo pragmatico e con una solida visione di lungo periodo.