Estero

Baghdad agli Usa: ritirate le truppe. Trump: in Iraq per restarci

La Casa Bianca non considera le richieste irachene e impone nuove sanzioni all'Iran. Pompeo: Soleimani voleva colpire le ambasciate.

Keystone
10 gennaio 2020
|

Resteremo in Iraq, piaccia o no agli iracheni. Tra nuove sanzioni e offerte di negoziato all’Iran, e il fronte domestico (dove i democratici le provano tutte per limitare le prerogative presidenziali in caso di guerra), Donald Trump ha confermato la bully policy di cui si reclama campione. Al governo di Baghdad, considerato niente più di un sottoposto, e davanti alle sue reiterate richieste di ritirare le truppe, la Casa Bianca ha praticamente intimato di non alzare la cresta. 

Ancora oggi, il premier (dimissionario) Adel Abdul Mahdi ha chiesto a Mike Pompeo di inviare in Iraq una delegazione Usa per definire il ritiro dei 5200 soldati americani, come sollecitato da una mozione del parlamento dopo l’uccisione del generale Qassem Soleimani a Baghdad, considerata una violazione della sovranità nazionale. Ma la portavoce del dipartimento di Stato Morgan Ortagus ha risposto con una dura nota in cui afferma che “qualsiasi delegazione mandata in Iraq discuterà non il ritiro delle truppe ma come riorganizzare al meglio la nostra partnership strategica, la nostra giusta e appropriata postura in Medio Oriente”. 

Ortagus ha rivelato però un dettaglio che potrebbe far intravedere un futuro cambio della guardia tra Usa e l’Alleanza Atlantica in Iraq: “Una delegazione della Nato è al Dipartimento di Stato per discutere un maggior coinvolgimento in Iraq, in linea con il desiderio del presidente Trump di una maggiore condivisione degli oneri nei nostri sforzi di difesa”. Nato sulla cui utilità, va pur ricordato, Trump ha più volte espresso qualche riserva (per usare termini civili).

Quanto all’Iran, Pompeo e il segretario  al Tesoro Steve Mnuchin hanno annunciato le nuove sanzioni contro individui o entità operanti nel settori delle costruzioni, del manifatturiero, del tessile e in quello minerario. Sanzionati anche otto alti dirigenti del regime ritenuti coinvolti nel raid missilistico. Tra loro il segretario del supremo consiglio di sicurezza, il vice capo di stato maggiore delle forze armate e il comandante della milizia Basij. “Stiamo mirando al cuore dell’apparato di sicurezza interna”, ha sottolineato Pompeo, aggiungendo senza dettagli che Soleimani è stato eliminato perché gli Usa avevano informazioni specifiche su “imminenti minacce di attacchi su larga scala ad ambasciate e basi americane”, dopo che ieri Trump aveva evocato un piano per far esplodere la sede diplomatica Usa a Baghdad (la più grande e fortificata al mondo), nientemeno. 

 

Fallito un raid contro Force Quds

Non c’era solo Qassam Soleimani  nel mirino degli Stati Uniti. Nello stesso giorno in cui uccisero il capo delle forze d’élite Quds,  un’operazione analoga fallì contro un altro alto dirigente iraniano in Yemen Abdul Reza Shahlai, finanziatore e a sua volta figura di vertice delle stesse unità speciali. Lo ha scritto oggi il Washington Post citando non meglio specificati “funzionari” dell’Amministrazione.
“Se lo avessimo ucciso, lo avremmo annunciato e ce ne saremmo vantati la stessa sera”, ha dichiarato un alto funzionario Usa. Un’altra fonte ha aggiunto che i due raid sono stati autorizzati simultaneamente e che la Casa Bianca non ne ha dato notizia visto l’esito di quello contro Shahlai. Il quale non è però al sicuro, ha aggiunto la fonte, e anzi resta un potenziale bersaglio per il futuro.
Già in dicembre, il Dipartimento di Stato aveva posto quindici milioni di taglia  su Shahlai, accusandolo di avere “una lunga storia di coinvolgimenti in attacchi diretti contro gli Stati Uniti e i nostri alleati, tra cui il complotto nel 2011 contro l’ambasciatore saudita”.