Le vecchie piantagioni nei dintorni evocano una storia cambiata solo fino a un certo punto. Un luogo rinato dopo l’uragano Katrina, ma non per tutti
Mariane, “Negresse Creola”, 35 anni, brava cuoca e domestica con un’ernia e una bambina (Ursula, 6 anni): valore 450 dollari.
Loris, “Negro Creolo”, carrettiere e lavoratore nelle piantagioni di indaco, 28 anni: valore 700 dollari.
Dyola, “Negro Diolo”, 70 anni, con un’ernia: valore 50 dollari.
Paul, “Negrillon Creolo”, 10 anni, nessuna abilità: valore 200 dollari.
Sono quattro nomi presi a caso da una lista di schiavi della piantagione di tale Antoine Robert de Logny nel 1792 e oggi esposti in uno di quei luoghi della memoria che in troppi si dimenticano di ricordare, la Destrehan Plantation, a soli 35 chilometri a ovest di New Orleans.
Keystone
New Orleans sott’acqua nel 2005
Su quel foglio, che non era altro che una sorta di listino prezzi di esseri umani in vendita, c’è la Louisiana di oltre duecento anni fa. Se avevi abbastanza soldi sceglievi ciò che ti serviva (lavandaie o fabbri, intagliatori e sarte), pagavi e te ne andavi: quell’uomo o quella donna diventavano tuoi. Era tutto normale. Per agevolare le trattative c’era – un po’ dappertutto – anche la piazza del mercato.
C’erano anche schiavi che riuscivano a metter da parte abbastanza denaro per comprarsi la libertà e riscattare quella di una madre, di un fratello, di un amico. E poi c’erano schiavi che – una volta liberi – si compravano degli schiavi per continuare a sottometterli. L’uomo è strano.
R. Scarcella
Due abitanti di New Orlenas
Entrare in una piantagione, ascoltarne le storie – quasi tutte orrende, alcune ispiratrici e bellissime – è un modo per fare i conti con il passato.
Il presente gli somiglia in maniera molto più sottile e sta scritto su altri fogli, con altri nomi e altri numeri. Non c’è più “Negro” (o “Negrillion”, a volte con una seconda “i” a volte senza, che indica i neri di etnie in cui la bassa statura era la norma, come i pigmei), ma “African-American”.
I numeri però sono impietosi e dicono che dopo l’arrivo dell’uragano Katrina, nel 2005, è stata proprio la popolazione nera di New Orleans a pagare più di tutti. Prima del disastro, la città del jazz e del Mardi Gras aveva 480mila abitanti, un anno dopo erano meno della metà: 206mila.
Senza più una casa, senza più lavoro né una prospettiva, molti tra coloro che erano stati evacuati nei primi giorni di caos non sono più tornati. Chi è tornato, soprattutto se povero e afroamericano, ha scoperto che quella città non faceva più per lui. O, semplicemente, non poteva più permettersela: perché è vero che la ricostruzione è iniziata in fretta, ma erano soldi investiti per portare e poi fare altri soldi, e chi non li aveva era fuori. È finita che una città che nel censimento del 2000 contava 323mila persone di colore (il 66,7%), ora ne conta poco più di 200mila (53%).
R. Scarcella
Il French Quarter
“Questa ormai è una città di bianchi” è il ritornello di chi si sente sempre più ai margini. E nei fatti lo è: la ‘gentrificazione’ della città ha fatto alzare gli affitti del 35%, chiaro che per chi è tornato, il lavoro che aveva non bastava più per arrivare a fine mese. E così si emigra o ci si allontana dal centro verso una periferia sempre più povera, sempre più arrabbiata, sempre più violenta. Le liste degli sfollati dell’uragano a cui è stata diagnosticata la Ptsd (la sindrome da stress post-traumatico) includevano oltre 11mila persone, una ogni 44 abitanti: la stragrande maggioranza di colore.
Camminare per il centro cittadino – sempre affascinante, per quanto iperturistico – dà già l’idea di una ripresa a metà. I marciapiedi sono una specie di percorso a ostacoli capace di mettere in crisi caviglie e ginocchia. Non ci si può distrarre un secondo, come in quei videogiochi alla Mario Bros in cui basta un attimo per cascare giù. Prendere l’automobile e allontanarsi di qualche chilometro è sufficiente per vedere strade con buche e – talvolta – voragini; o case che non sono più tali da quasi vent’anni ormai, eppure qualcuno dentro ci vive.
Keystone
Festa a Bourbon Street
Se si riesce a trovare un pertugio dove infilarsi tra la New Orleans che ha venduto l’anima al turismo di massa (la celebre Bourbon Street la sera è un bazar di bassa lega con ogni vizio venduto a peso d’oro e ogni divertimento svuotato di senso) e quella che l’anima la sta cercando insieme al portafoglio, la città sa restituirti ancora molto. Club periferici come il Tipitina’s sono un inno alla vita, con brass band moderne capaci con i loro suoni di farti sentire nel qui e ora, ma anche nel passato glorioso di una città che vive di musica, di balli, di attimi di felicità rubati alla fatica quotidiana.
Non c’è nulla entro i confini degli Stati Uniti che somigli di più all’America Latina o alla tanto odiata Cuba (o quel che ne resta). Camminare per il colorato quartiere di Marigny in una pigra domenica mattina non è poi molto diverso che farlo per le strade di Cartagena, in Colombia. Sembra un controsenso, ma qui lo è quasi tutto. Questo è il luogo in cui gli Stati Uniti – raccontati come una terra di zotici cuochi da hamburger e poco altro – sanno offrirti una cucina eccellente (che va dal Gumbo alla Jambalaya), figlia delle mille commistioni del luogo.
R. Scarcella
Una bambina con il suo pappagallo al mercato
Anche la politica finisce dentro a questa schizofrenia quasi necessaria per comporre una città misteriosa come la sua musica, il jazz: a New Orleans, le ultime elezioni presidenziali hanno visto Biden prevalere con l’83% delle preferenze: un’enormità. Eppure in Louisiana un democratico non vince dai tempi di Clinton. Chi a New Orleans ci suona, magari da sempre, ti dice che rimasticare note è un modo per capirla. Trovare un senso in questa città dai ritmi sincopati e dalle continue improvvisazioni anche tra chi non parla la lingua del jazz è quasi inutile.
Trovare angoli di fragile bellezza è invece facilissimo, come quando in una piccola, immacolata libreria di quartiere che sembra uscita da un film francese leggi su un biglietto scritto a mano accanto alla cassa: ‘Solo uno stupido ruba in un negozio del genere’.
R. Scarcella
Un concerto jazz