Gli affari nella città dei divertimenti vanno a gonfie vele. Ma a che prezzi? E a che prezzo? Eppure il trucco non solo c’è, ma si vede benissimo
Fatevi, fateci un favore. Chiudetela, Las Vegas. Non è questione di antiamericanismo né di anticapitalismo: è una questione di decenza. Vero che – per certi versi – non c’è nulla di più capitalistico e yankee di Las Vegas, eppure non è tanto quello a disturbare. È piuttosto la decadenza che si porta appresso tutto quello scintillio se lo guardi in controluce senza farti incantare da quei costosissimi trucchi da quattro soldi che lo tengono in piedi. E, di nuovo, non sono tanto i casinò, gli hotel grandi come città, gli spettacoli h24, i buffet pantagruelici, le riproduzioni di Parigi, Venezia e New York.
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Las Vegas by Night
A rendere insopportabile il tutto è una strana musica da luna park per adulti diffusa nelle strade, una specie di sigla dei Teletubbies pensata per friggere cervelli più grandi: la gente la annusa con le orecchie e la segue come si fa con l’irresistibile odore del pane appena uscito dal forno. Più ci cammino dentro e più mi irrita, come se fossi costretto ad assistere a un intero concerto di musica per ascensore o un interminabile recital scolastico fatto di flauti e diamoniche Bontempi (quelle pianole col tubetto attaccato per soffiarci dentro). Eppure c’è chi – inebriato da quei suoni, dalle luci, dagli odori di junk food spruzzato come se fosse Chanel N.5 – resta imbambolato come i bimbi portati a spasso dal Pifferaio di Hamelin.
Li vedi dalle facce, sempre sorprese, stupite da cose che dovrebbero smettere di stupire, passata una certa età (a spanne quella della pubertà): gli roteano gli occhi, come ai personaggi di quei film che a un certo punto si ritrovano un mondo fantastico. E qualcuno magari dirà, “che male c’è, sanno ancora stupirsi”. Ma il trucco è davvero troppo grossolano per sospendere il senso di realtà. E la fregatura talmente evidente, non foss’altro che è sempre in agguato, assillandoti ancor prima di metterci piede, a Las Vegas. Le offerte degli hotel, in settimana, non sembrano vere. E infatti non lo sono. Leggi 20-30-40 dollari per hotel cinque stelle che paiono astronavi, quando per dormire in un infimo motel qualche centinaio di chilometri più in là non te ne sono bastati 100.
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Una sposa a Las Vegas
Il trucco è quello dei servizi extra obbligatori, quasi sempre nascosti: come le telefonate all’estero, la pulizia delle scarpe, la palestra, i giornali, perfino il servizio traduzioni o il barbiere. Tu non li usi, ma paghi lo stesso, e soprattutto lo vieni a sapere dopo, se non stai attento. Poi c’è la mancia al parcheggiatore, all’aiuto parcheggiatore, a quello che ti alza la sbarra, a quello che guarda quello che alza la sbarra. Per fare il check-in (che avevo già fatto online) sono dovuto passare da cinque persone diverse: anche lì c’era un facchino che ti spostava il bagaglio di un metro per poi indicarti il tuo facchino. Siamo a quei livelli lì.
Il gigantismo di Las Vegas (la sfinge del Luxor, per dirne una, è più grande dell’originale, a Giza, i Egitto) è uno stratagemma per riempire vuoti, quello delle praterie del Nevada e quello di chi ci va, più o meno consapevole di tutto questo teatrino pieno di figure rassicuranti, appartenute a vari livelli al nostro passato. Stai certo che se una stella è cadente, o già caduta da un pezzo, ha il suo resident-show qui (una serie di date che possono durare anni e che non diventano mai un tour; se vuoi vedere il decaduto di turno non viene lui da te, ma il contrario): da Mariah Carey a Kylie Minogue, da Lionel Richie agli U2, chi non ne azzecca una da un bel po’ lo trovi a Las Vegas. C’è anche David Copperfield, il mago che faceva sparire la Statua della Libertà, per poi sparire lui e ricomparire qui. Tutti show ben pagati, beati loro. Ma con un pubblico pigro e passivo, che si svena per assistere a un pezzo del proprio passato invecchiato e tenuto su da ricordi, botulino e dosi extra di cerone.
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Il Luxor e la sua sfinge più altra di quella di Giza, in Egitto
Nel luogo in cui tutto dovrebbe luccicare, tutto in realtà è depotenziato. E non può non tornare alla mente quel capolavoro di “Una cosa divertente che non farò mai più”, il libro-reportage di David Foster Wallace da una nave da crociera, che poi non è altro che una mini Las Vegas galleggiante. Lo scrittore-feticcio tratteggiava in poche righe (“Ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedevano all’Ufficio Relazioni con gli Ospiti se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all’aperto, se l’equipaggio dorme a bordo e a che ora è previsto il buffet di mezzanotte…”) l’identikit del popolo delle crociere, che è lo stesso popolo che mi scorre davanti sulla Strip, compra a cifre da ristorante stellato pop corn colorati e durante una partita di hockey si fa dire da una voce registrata tutto quello che deve ripetere, come, quando e a quale velocità (Las Vegas, che non compariva nelle grandi leghe degli sport Usa fino al 2017, ora ha una squadra in Nhl, una di football americano in Nfl, dal 2028 una di baseball in Major League e forse, a breve, anche una di Nba). Nel celebre banco dei pegni del fortunato format “Affari di famiglia” c’è un cartello vicino alle casse: ‘Vietato fare foto in questa direzione’. Accanto la scritta: ‘Prestiti a 90 giorni. Interessi: 13% al mese’. Strozzinaggio legalizzato o qualcosa del genere. Un esempio, tra i mille possibili, del prezzo da pagare per tenere in piedi il Luna park.
R. Scarcella
‘Affari di famiglia’ e cartelli con interessi al 13%
Magari sbaglio io, sicuramente sbaglio io, che mi sento un alieno, mentre Las Vegas cresce a dismisura nel portafoglio, in popolarità e popolazione. Negli anni ‘40, quando ‘Sin City’ era solo un’idea e nascevano i primi casinò, la città contava 8mila abitanti; vent’anni dopo erano 60mila, nel 1986 superava i 200mila, diventati 500 mila nel 2001. Oggi Las Vegas ha quasi 650 mila abitanti, oltre due milioni se contiamo l’area metropolitana, che – teoricamente – con tutto quello spazio intorno, potrebbe espandersi all’infinito.
Mentre scendo da questo giro di giostra infinito, direzione Grand Canyon, e rivedo la copia della Statua della Libertà, ripenso alla scena finale del “Pianeta delle scimmie”, quando il viaggiatore del tempo Charlton Heston, convinto di essere finito su un pianeta alieno dominato dalle scimmie, in cui gli uomini sono ridotti in schiavitù, scopre su una spiaggia i resti della Statua della Libertà e comprende che quella è la Terra, devastata dagli stessi umani. Accorgersene per tempo, con statue e scimmie ancora al loro posto, non sarebbe affatto male.
R. Scarcella-LaRegione
Le Statua della libertà di Las Vegas e quella de ‘Il pianeta delle scimmie’