La crisi del settore immobiliare cinese si tramuterà in una grave recessione su modello della grande crisi finanziaria del 2008? In tal caso, i mercati azionari delle economie avanzate ne risentirebbero inevitabilmente data la significativa esposizione alla Cina di molte società quotate. La risposta è negativa. Il carattere rudimentale dello stato sociale incita i cinesi a risparmiare. Il debito delle famiglie rispetto al Pil è basso in paragone al debito pubblico e delle imprese non finanziarie (61%, risp. 112% e 119% secondo l’FMI). Il suo rischio è perciò modesto. Il mercato finanziario poco sviluppato offre poche alternative all’investimento nella propria abitazione e ai depositi bancari. Pur poco redditive, le banche non hanno problemi di raccolta, ma piuttosto d’impieghi. Negli scorsi decenni, il settore immobiliare è stato trainato dall’urbanizzazione e dal rapido aumento del reddito disponibile delle famiglie, non da un boom del credito. Non riusciamo perciò a immaginare una concatenazione come quella del 2008 negli USA, iniziata dall’insolvenza delle famiglie e finita con il collasso del sistema bancario. È invece fuor di dubbio che l’eccesso di offerta sul mercato immobiliare e le capacità eccedentarie dei costruttori necessitino di una fase di consolidamento che durerà anni e non risparmierà perdite alle banche, in principio d’entità insufficiente da provocare una crisi sistemica. Indebitate (rapporto debito su Pil del 100%) e dipendenti dalle vendite di terreni, le province dovranno pure ridimensionare i loro piani d’investimento. Il consolidamento del settore immobiliare priverà la Cina di uno dei suoi principali motori di crescita. Non provocherà il collasso dell’economia e scossoni sui mercati azionari internazionali. Contribuirà invece al calo tendenziale del potenziale di crescita di lungo periodo dell’economia cinese a cui l’investitore azionario deve abituarsi.