Le perturbazioni del traffico marittimo nel Mar Rosso (e non solo) e il possibile ritorno di Trump lasciano presagire un nuovo aumento dei prezzi
Questa volta le acque del Mar Rosso si sono chiuse. A breve, un nuovo intervento divino capace di riaprire in misura stabile una delle rotte commerciali più importanti non è in vista. Finora, gli attacchi degli houthi alle navi in procinto di attraversare lo stretto Bab el-Mandeb hanno fatto onde nell’economia del mondo ma non tali da provocare tsunami. Dopo l’attacco di americani e britannici, giovedì scorso, a più di 60 posizioni del gruppo filoiraniano nello Yemen, le conseguenze dello scontro che riguarda particolarmente l’Europa potrebbero essere ben maggiori. Per quel che riguarda il commercio ma anche l’inflazione, i tassi d’interesse, le scelte delle banche centrali.
Sulla rotta che dall’Asia passa per il Mar Rosso (con il Mandeb all’imbocco Sud e il Canale di Suez all’imbocco Nord) per arrivare nel Mediterraneo (e viceversa) circa il 15 per cento del traffico marittimo del mondo. E il 30% delle navi container. A causa degli attacchi, alla fine della settimana scorsa gli attraversamenti di Suez erano crollati del 90%. Per il momento, gli effetti della distruzione del traffico marittimo sono stati seri ma relativi, grazie al fatto che una parte delle imprese europee ha scorte con le quali affrontare un periodo di scarsità di forniture e grazie al fatto che sul mercato del petrolio sono arrivati nuovi produttori non Opec+, in particolare americani.
Ciò nonostante, il trasporto di merci sulla rotta del Mar Rosso è oggi del doppio più caro che a fine 2023: secondo la società di consulenza Drewry, nei primi dieci giorni di gennaio, portare un container da Shanghai a Rotterdam ha registrato un balzo del costo di oltre il 110%, a quasi 3’600 dollari. È che buona parte delle compagnie di navigazione ha deciso di evitare la rotta più breve e ora, per collegare Europa e Asia, le navi circumnavigano l’Africa, un viaggio più lungo di due-tre settimane e più costoso.
Alcuni settori industriali europei sono a rischio più di altri, a causa dei ritardi nelle forniture: macchinari, arredamento, tessile. L’abbigliamento, in particolare, può soffrire nella fase di realizzazione delle collezioni primavera-estate: gli approvvigionamenti dovrebbero arrivare prima di febbraio, quando la Cina andrà in vacanza per due settimane, ma non è detto che per tutte le imprese ciò sia possibile.
Non siamo ancora ai livelli di crisi raggiunti durante la distruzione delle catene di fornitura nel periodo della pandemia da Covid-19, quando il costo globale del container superò gli 11mila dollari. Se però la pressione sul commercio marittimo dovesse durare a lungo e diventare caotica come allora – quando saltò il sistema di andata e ritorno delle navi e si accumularono migliaia di container nei porti – i prezzi potrebbero velocemente decollare. Anche perché gli scambi sono globali e le crisi non si limitano alla rotta di Suez.
Il Canale di Panama sta soffrendo una siccità che ha costretto le autorità a ridurre da 38 a 24 le navi che lo attraversano ogni giorno. Il Mar Nero è infestato di mine e l’aggressione russa all’Ucraina mette a repentaglio gli scambi. Il Baltico sta diventando un bacino di sabotaggi, con obiettivi le pipeline e i cavi sottomarini. Il Mare Cinese Meridionale registra sempre più di frequente scontri per l’azione della Marina cinese contro i pescatori filippini, per ora non devastanti ma che potrebbero allargarsi. Per non dire degli sviluppi possibili nelle acque attorno a Taiwan dopo le elezioni di sabato scorso.
Se poi la tensione tra gli houthi e il suo alleato Iran da una parte e la missione guidata dagli Stati Uniti per fermare le aggressioni nello Stretto Bab el-Mandeb dall’altra dovesse allargarsi allo Stretto di Hormuz, passaggio chiave per le petroliere in uscita dal Golfo Persico, anche il prezzo del greggio aumenterebbe significativamente.
Le distruzioni alle catene di fornitura e di esportazione che si verificarono durante la pandemia contribuirono al riaccendersi dell’inflazione. Anche ora è probabile che ciò succeda. Più di una società di analisi calcolava una settimana fa che una forte e prolungata limitazione del traffico sulla rotta di Suez potrebbe fare salire l’inflazione tra lo 0,6 e lo 0,8%. Di fronte a questo scenario, l’aspettativa di un taglio dei tassi d’interesse a marzo che sui mercati si era diffusa nelle settimane di fine 2023 è destinata a sbiadire: le maggiori banche centrali, dall’americana Fed alla Bce fino alla Bank of England, sono su un piede di estrema prudenza.
L’intervista data la settimana scorsa dalla presidente della Bce, Christine Lagarde, al canale tv France 2 è stata inusuale: ha detto che una rielezione di Donald Trump negli Stati Uniti sarebbe «chiaramente una minaccia» per l’Europa e un banchiere centrale di solito non commenta eventi politici. Però l’analisi della governatrice è indicativa di una preoccupazione diffusa, cioè dell’intensificarsi di politiche protezioniste anche tra le due sponde dell’Atlantico. Con aumenti dei prezzi che andrebbero ad aggiungersi a quelli causati dalle tensioni sulla logistica marittima.
La geopolitica, insomma, sta entrando a piedi uniti nelle economie. L’esperienza dice che la resilienza e la capacità di adattamento sia del sistema industriale sia del sistema dei trasporti sono elevate: si vide sia al tempo del Covid sia per la crisi della nave container Ever Given che nel 2021 bloccò il Canale di Suez per sei giorni. Iran e houthi potrebbero però trascinare il blocco per molto tempo.
Americani e britannici sapranno aprire le acque del Mar Rosso?