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‘Kto Tam?’ e l’arte di abitare il vuoto

Igor Mamlenkov ha costruito uno spettacolo tragicomico in equilibrio tra fiaba sovietica e riflessioni contemporanee, in scena il 20 e 21 dicembre al Foce

Chi c’è?
20 dicembre 2024
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Cosa succede se si bussa a una porta e, dall’altra parte, non si riceve risposta? Forse bisogna insistere, o forse no: a volte, come nei romanzi di Gogol’, è l’assenza stessa a parlare più di ogni risposta. Da una domanda così semplice, l’artista russo Igor Mamlenkov ha costruito uno spettacolo tragicomico in equilibrio tra fiaba sovietica e riflessioni contemporanee, in scena il 20 e 21 dicembre al Teatro Foce di Lugano. Il titolo, ‘Kto Tam?’ (Chi c’è?), è un’eco che rimbalza nella memoria di Mamlenkov. «Viene da un cartone animato sovietico: c’era un piccolo uccellino che, all’arrivo del postino, riusciva a dire solo queste parole, in continuazione, facendolo impazzire. È partito tutto da lì, da questo ricordo». Mamlenkov rielabora questa eredità in ‘Kto Tam?’, e nel farlo mette da parte la presunta urgenza di una risposta.

Un folletto senza padroni

Al centro troviamo un Domovoi, un folletto che nella mitologia slava protegge la casa e ne custodisce gli spiriti. La famiglia se n’è andata; a lui non resta che misurarsi con la solitudine. Qui la domanda “Chi c’è?” si dilata in un’intera poetica dell’attesa, dello spaesamento, e in una capacità di prendersi in giro da soli, immersi nel silenzio di una stanza vuota. Il Domovoi vivacchia tra scatoloni impolverati, oggetti dimenticati, ricordi stagionati come cetrioli sotto sale. «È anche una domanda filosofica, perché è nata durante la pandemia, durante la chiusura, e parla di solitudini. Questo personaggio, completamente solo, chiede nel vuoto “Chi c’è?” cercando compagnia, qualcuno con cui interagire, anche solo attraverso i ricordi».

La casa è vuota, ma si presta a un’industriosa reinvenzione. Il Domovoi esplora, gioca, ricostruisce: quasi a ricordarci che l’autarchia creativa è un’arte dimenticata. Lui è solo, ma non si arrende. Si diverte, costruisce, usa quello che trova in una lezione sulla resilienza per cui non si ha bisogno di molto per essere felici.

La scena è un bricolage essenziale: cartoni, lampade di recupero, oggetti trovati. Poveri materiali che, invece di sminuire, diventano parte del racconto. Non un ripiego, ma la filosofia di chi ha imparato a convivere con l’imprevisto, come se la creatività non fosse altro che un modo per ridare dignità alla desolazione: «All’inizio ho adottato un approccio molto minimalista: durante la pandemia non sapevamo come si sarebbe evoluta la situazione, quindi sono partito da materiali facilmente reperibili, come semplici scatole di cartone».

Il teatro tragicomico

Igor Mamlenkov appartiene a quella scuola di teatro slavo dove comico e tragico sono due facce della stessa medaglia. L’autore non usa il riso per anestetizzare, bensì per esporre ferite aperte: «Credo che il teatro tragicomico sia importante: non deve necessariamente essere parlato, ma riesce ad accendere il pubblico e a farlo confrontare con diversi temi. Non si tratta solo di far ridere, ma di raccontare storie vere, di sofferenze autentiche, affrontate attraverso questa chiave tragicomica».

Il Domovoi si trasforma in un riflesso del modo in cui costruiamo i nostri rapporti con il passato. «Andrej Tarkovskij ha detto che se dovesse dare alle nuove generazioni un consiglio, sarebbe proprio quello di imparare a stare da soli. Non significa sentirsi isolati, ma confrontarsi con il nulla, con la solitudine, con il silenzio, con il proprio essere».

Un artista russo in tempi complicati

Lo si intuisce: qui il divertimento non è intrattenimento, ma un trattamento omeopatico contro quel vuoto che la solitudine scava anche dietro i nostri orizzonti occidentali. E a chi si chiede se un artista russo, oggi, possa evitare i grandi traumi del presente, Mamlenkov risponde senza schivare l’impasse morale: «Lo spettacolo cerca semplicemente di promuovere la pace, l’amore, e di confrontarsi con certe questioni invece di scappare, per far mostrare che non tutti i russi sono pro-Putin, non tutti sono pro-guerra».

Non sorprende allora che ‘Kto Tam?’ abbia toccato altre latitudini, come l’Uganda, svelando altre complessità. Perfino il riso, lungi dall’essere innocuo, si carica di significati legati a retaggi culturali e dinamiche di potere, mostrando quanto anche il non-verbale possa farsi politico. Una domanda semplice, “Chi c’è?”, diventa così un ponte da costruire, un confine da attraversare senza fretta.

‘Kto Tam?’ non controlla il passaporto né la data di nascita del pubblico: è un invito a tutti, bambini e adulti, a fare pace con i silenzi, a scoprire che la malinconia può essere più un fischiettio sommesso che un rantolo disperato. È la promessa di trovare un senso nelle piccole cose smarrite, nelle risposte che non arrivano subito, ma che forse esistono da qualche parte, dietro una porta rimasta socchiusa.