Ben consci che il cinema è una cosa e il teatro un’altra, benché il film arrivi dal teatro, applausi a scena aperta al Lac (fino a domenica)
Sono decine le leggende che circondano il film cult per eccellenza, The Rocky Horror Picture Show. Si dice che il suo autore, Richard O’Brien, lo pensò inizialmente per il teatro (si tolga ‘Picture’ dal titolo) durante le sue notti insonni da disoccupato londinese a inizio Anni 70 (e pensare che il terremoto liberista thatcheriano era ancora di là da venire!).
La trama, brillantemente funzionale epperò in realtà piuttosto esile, racconta di due fidanzatini alquanto imbranati, Brad e Janet (lei sta per giungere vergine all’altare, lui non si sa) che in una notte tempestosa ma non buia – diverrà anzi coloratissima – cercano rifugio in una castello. Lì il dottor Frank N. Furter (Tim Curry, attore tra l’altro laureato dapprima in letteratura inglese a Cambridge e poi in arte drammatica all’Università di Birmingham.), sculettante e arrapante travestito destinato a divenire icona glam, calca la scena su tacchi vertiginosi, indossa non più di tanto guêpière, calze a rete nere, paillette luccicanti e la bocca resa irresistibile dal lucido rossetto, si appresta a celebrare il suo trionfo. È infatti riuscito a creare il biondo muscoloso Rocky, splendido esemplare di sex toy disponibilissimo per avventure erotiche sia con maschietti sia con femminucce.
Sguaiato, provocante e spudorato, il film è un inno rock alla libertà sessuale, alla fluidità dei generi e dei gusti sessuali. Uscì sugli schermi nel 1975, appena otto dopo che il Regno Unito smise di mettere in galera i gay (chiedere a Oscar Wilde), abrogando finalmente una norma risalente allo scisma anglicano, il Buggery Act del 1533 che prevedeva addirittura la pena di morte per coloro i quali si accoppiavano a persone dello stesso sesso. Alcuni momenti musicali eccezionali (accanto ad altri certo poco memorabili) fanno da raccordo a una favola horror frammentaria che ammicca volentieri al demenziale. Dopo l’uscita piuttosto anonima in un teatro Chelsea, il lavoro di O’Brien attirò l’attenzione del regista australiano Jim Sherman, il quale ottenne i diritti per farne un film, a condizione di riservare allo stesso O’Brien il ruolo del factotum gobbo Riff Raff. Vuoi per l’eccezionale performance di tutto il cast, vuoi per la suadente/accattivante colonna sonora (il brano ‘The Time Warp’ fu inciso anche da Mina, nel doppio Lp ‘Italiana’ uscito nel 1982), il film mosse migliaia di giovani in tutto il mondo a compartecipare alla proiezione della pellicola, che conoscevano ormai a memoria, anticipando battute e canzoni e calandosi in questo o quel personaggio. Alcune sale (a Milano il Cinema Mexico, a Bologna l’Alfa) tennero per anni in cartellone ‘The Rocky Horror Picture Show’ e lì anche il vostro ancor giovane cronista, confessiamolo, fece parecchi balzi all’ironicissimo invito “it’s just a jump to the left”.
Ben consci che il cinema è una cosa e il teatro un’altra, abbiamo assistito al musical proposto in questi giorni dal Lac (repliche sino a domenica). La nuova produzione del musical diretta dal regista Sam Buntrock – con esperienze a Broadway – ci ha messo un po’ in imbarazzo: increduli che si potessero ricreare sul palco le meraviglie degli effetti speciali e del montaggio del film, siamo stati viceversa trascinati in una girandola di emozioni. Dal “Pianeta proibito”, presi per mano dalle grazie di Anne Francis, siamo tornati alla realtà col narratore/guida Igor Horvat, per nulla imbarazzato quando si tratta di accennare a Lili St. Cyr, spogliarellista degli Anni 40 definita all’epoca Anatomic Bombe. Una scenografia forse uscita da una stampante 3 D (auto in primo piano, cantanti sul tettuccio del veicolo e paesaggio che scorre dietro il pare-brise), performance vocali così perfette da far sorgere il dubbio del playback; ombre cinesi con la coppia che si accoppia in un petting forse sì divertente ed eccitante, ma che poi lascia delle macchie sul letto!
In una platea gremita, chi ha vissuto l’epopea dello show negli Anni 70/80 era affiancato da qualche giovincella (maschi: non pervenuti) bardata come Magenta o Columbia. Trascinati dalla musica live di una rock band, c’è stato un finale pirotecnico con stelle filanti e dorate a piovere sul pubblico – fresco reduce di parecchi applausi a scena aperta – e ormai tutto in piedi per urlare “That really drives you insane” e forse a riflettere sul fatto che there’s a light: c’è una luce nell’oscurità di tutti noi.