Al Lac, venerdì 22 e sabato 23 novembre, la trilogia cechoviana si compie. A colloquio con Federica Mazza, che veste i panni di Ljubov’ Andreevna
Non è un giardino per nostalgici di bianchi scenari strehleriani. Con ‘Il giardino dei ciliegi’, Leonardo Lidi chiude la sua trilogia su Čechov con la stessa determinazione di Lopachin nell’abbattere i famosi alberi: niente indulgenze per il passato, solo la radicalità del presente. In scena al Lac venerdì 22 e sabato 23 novembre, questa produzione del Teatro Stabile dell’Umbria – ultima tappa di un viaggio iniziato con ‘Il gabbiano’ e ‘Zio Vanja’ – reinterpreta l'opera di Čechov. La trama è nota: Ljubov’ Andreevna Ranevskaja, un’aristocratica decaduta che torna alla sua tenuta per salvare il giardino dei ciliegi, simbolo della memoria familiare. Incapace di agire, perderà tutto: la proprietà verrà venduta al pragmatico Lopachin, che abbatterà i ciliegi. Un testo che parla di perdita, cambiamento e nostalgia, ma che, nelle mani di Lidi, si trasforma in un’opera che interroga il teatro stesso.
Sul palco, al posto degli alberi in fiore, ci sono sedie spaiate e plastica nera a cancellare ogni residuo di lirismo. Non c’è spazio per la nostalgia estetizzante. Francesca Mazza, che interpreta proprio Ljubov’ Andreevna, racconta così la visione di Lidi: «Leonardo ha lavorato per combattere tutti gli stereotipi che questo testo porta con sé, un impegno che si è rivelato estremamente faticoso. Non si trattava di una provocazione fine a sé stessa, ma di un tentativo costante di renderlo il più possibile presente, sia per noi che per il pubblico.»
Con questo spettacolo, Lidi chiude il cerchio della sua trilogia, proponendo un Čechov che abbandona il simbolismo accademico per abbracciare una metafora che tocca il politico: quel giardino, per lui, è il teatro. Mazza lo spiega con chiarezza: «Questi ciliegi che vengono tagliati rappresentano questioni legate alla politica teatrale. L’urgenza era proprio questa: parlare di noi attori, delle nostre fatiche, e, al tempo stesso, rivolgersi al pubblico per raccontare la condizione del teatro oggi». Un teatro sospeso tra memoria e oblio, proprio come il giardino, mentre una borghesia rampante, impersonata da Lopachin, abbatte tutto senza rimorsi. «Riprendendo le parole di Lopachin: “Le ciliegie fanno un anno sì e un anno no e poi non le compra più nessuno queste ciliegie.” Queste battute, lette in chiave teatrale, sembrano dire che il teatro deve “rendere”, come se dovesse ogni anno riprodurre queste ciliegie», riflette l’attrice.
Per tre anni, gli stessi attori hanno attraversato Čechov insieme sotto la guida di Lidi. Francesca Mazza, che collabora con il regista fin dal primo spettacolo della trilogia, descrive questa continuità come una rarità assoluta nel teatro italiano: «È stata una fortuna, un privilegio. Questo ci ha permesso di approfondire, di costruire una continuità che si sente. È un tipo di progettualità che non si vede spesso, ed è stato un esempio molto raro che ha reso questa esperienza preziosa per noi. Leonardo ha preso una decisione da tanti punti di vista vincente: mantenere lo stesso cast e distribuire i ruoli di volta in volta all’interno dello stesso gruppo».
Tra le sfide più grandi, c’è quella di interpretare Ljubov’ Andreevna, un personaggio che nelle mani di Lidi e Mazza sfugge agli stereotipi. «Leonardo mi diceva sempre che questo è un personaggio che rotola. Non ce la fa a fermarsi, non ce la fa a salvare le cose. Spreca denaro, perde un figlio, si fa fregare dagli uomini, ma vive. E in qualche modo, anche questo è un modo di essere». Non è stato semplice darle vita: «Io ho sofferto per questo personaggio, però adesso sono arrivata a un punto in cui proprio la amo, la capisco», aggiunge Mazza. «È stato sicuramente dei tre l’allestimento più complesso, più tormentato da un certo punto di vista, anche perché si sentiva il peso dei due precedenti. Andare a chiudere una trilogia porta con sé un’eredità che non è facile da gestire».
Un capitolo finale che manda in soffitta l’immaginario della messa in scena di Giorgio Strehler, dove il bianco era il protagonista assoluto. Qui regna il nero, un nero plastico e spietatamente artificiale, per amplificare il senso di decadenza e precarietà anche tramite i costumi, firmati da Aurora Damanti. «Ha lavorato nella stragrande maggioranza dei casi con materiali di recupero, eppure secondo me è riuscita a creare un accordo dal punto di vista cromatico che è straordinario». E aggiunge: «Siamo vestiti male, ma diciamo delle battute meravigliose».
Per Mazza, Il Giardino dei Ciliegi è «sicuramente il più coraggioso dei tre allestimenti» della trilogia. «È anche quello più divisivo. Alcuni lo amano alla follia, altri ne rimangono staccati». Forse perché abbandona i toni nostalgici delle messe in scena di Stanislavski per restituire il lato più ironico di Čechov, che considerava i drammi umani non catastrofi epiche, ma specchi dell’assurdità della vita quotidiana, da raccontare in forma di commedia. «Nei nostri Čechov si ride, la gente ride, si diverte. E tutto questo non toglie niente al peso e alla profondità del testo».