Nuovo corso per la documentaristica Rsi: da gennaio a settembre 2025 stop allo storico programma. Che ripartirà con Philippe Blanc in produzione
La documentaristica Rsi può ancora vantare produzioni di qualità. Il ritratto di Noè Ponti, appena presentato a “Storie”, è solo una delle ultime voci di un lungo e appassionato discorso condotto fin qui dal produttore Michael Beltrami, ma che da gennaio a settembre 2025 subirà un lungo stop motivato dalla ricerca di un nuovo filo da seguire. Per arrivare dove, è presto per dirlo. L’impegno e la sensibilità che, a quanto ci è dato sapere, vengono attualmente investiti nell’elaborazione di un progetto da parte del nuovo responsabile del programma, Philippe Blanc, sono tali da giustificare un certo ottimismo.
A monte dei cambiamenti cui è soggetta la trasmissione si possono fare alcuni ragionamenti. Uno riguarda naturalmente la resa in termini prettamente numerici (“share”) che, almeno in parte, è legata al “target”: chi, cioè, ancora guarda, in diretta o registrati, i documentari Rsi. Di sicuro non sono i nostri figli, che più in generale osservano oggi la Tv come un possibile vettore primario grazie al quale tutt’al più raggiungerne uno secondario (YouTube più altre applicazioni assortite).
Bene fa quindi l’ente radiotelevisivo ad allargare le braccia fino a toccare, laddove si fanno trovare (dalle app ai social), quelle nuove generazioni che rimangono pur sempre l’unico possibile pubblico del futuro.
Qualche altra considerazione può essere fatta in merito al posto occupato, nel nostro mondo, dalla Tv generalista, che contemporaneamente deve e vuole continuare ad assolvere al meglio il suo ruolo di servizio pubblico. Ruolo – ed è questa una variabile di enorme portata – sempre più ostracizzato dalla fronda anti-canone che come un pifferaio magico ci sta conducendo verso servizi privati che ci costeranno di più e ci offriranno di meno: meno informazione (in primo luogo regionale), meno obiettività, meno confronto democratico, meno cultura, meno legami con il territorio e minor indotto sul territorio stesso in relazione, ad esempio, a quello che da una parte è un importantissimo datore di lavoro, e dall’altra un grande erogatore di servizi esternalizzati.
I risultati dello svilimento generale del concetto di servizio pubblico sono sotto gli occhi di tutti: necessità di risparmio a ogni piè sospinto, conseguenti licenziamenti e indebolimento di una struttura che, con i tempi che corrono, dovrebbe invece venire rafforzata. Ma anche in Svizzera, come in Europa, le idee soccombono a quella dialettica degli schiamazzi (spesso in perfetta malafede) che trova tra l’altro in Ticino alcuni eccellenti ambasciatori.
In questo contesto che definire fluido è ancora poco, è bello constatare che nicchie di forte appartenenza territoriale ancora possano esistere. Oltre che nell’ampia offerta informativa e culturale regionale esse si trovano, appunto, nella documentaristica autoprodotta da Rsi. ‘Noè Ponti. In acqua, io sono’, realizzato per “Storie” da Ellade Ossola, Alberto Bernad e Gianmario Reycend, è stato utilizzato dalla Rsi come bandiera di un programma che, per certi versi paradossalmente, si è ora deciso di congelare nella ricerca di nuove formule. L’anteprima a inviti del 25 settembre al Palacinema di Locarno era frequentatissima (ed è stata meritatamente molto applaudita) e in platea non sono passati inosservati diversi “graduati” Rsi. Qualcosa vorrà dire.
Quel documentario assurto in qualche modo a simbolo è infatti una sintesi di ciò che a “Storie”, da anni, fanno già. Questo, com’è ovvio, al netto dell’“appeal” dei soggetti scelti (ma il discorso è sempre soggettivo, sia per il realizzatore, sia per lo spettatore) e del fatto che per svariati motivi certi film (come certi piatti, o certi articoli) riescono meglio di altri. Il ritratto all’“enfant prodige” del nuoto ticinese rientra senza dubbio nel nutritissimo novero dei buoni lavori proposti nel corso degli anni. Potremmo stare qui a scriverne per una settimana, ma ci vengono in mente ‘Blenio, Utah’, di Patrick Botticchio; ‘Arzo, 1943’, di Ruben Rossello; ‘Steve Lee, la voce gentile del rock’, di Kevin Merz; ‘Il mistero Dyatlov’, di Matteo Born; ‘Dick Marty, un grido per la giustizia’, di Fulvio Bernasconi; ‘Ma quando arriva la mamma?’, di Stefano Ferrari; ‘Rega 6, base Ticino’, di Jesse Allaoua; ‘Walter l’Americano’ e ‘Angelo Conti Rossini el mè pa’, di Paolo Vandoni; ‘Virus’, di Michael Beltrami; ‘Gemelli’, di Misha Györik; o, ancora, i due ultimi lavori di Fabrizio Albertini, entrambi legati alla figura del nostro compianto collega Erminio Ferrari, ovverosia ‘Figli di E.’ e ‘Robiei 66. Anatomia di una tragedia’, da cui Erminio trasse il suo libro ‘Cielo di stelle’.
Quello appena elencato è un piccolo campionario di un catalogo enorme, da cui emergono profili di grandi personaggi e di persone comuni, testimonianze uniche che valgono come eredità storiche, affreschi di mondi antichi che fanno parte del nostro, di mondo. Troviamo ritratti di rara sensibilità che restituiscono ciò che noi stessi siamo in questo piccolo fazzoletto chiamato Svizzera italiana.
Poiché ho avuto il piacere di collaborare direttamente, per alcuni loro lavori, con due dei registi citati sopra, so bene cosa significhi realizzare un documentario per “Storie”. Significa tante cose: innanzitutto guardarsi in giro e individuare un buon soggetto; poi documentarsi e presentarlo alla produzione nella speranza di riuscire a ottenere il suo via libera; nel contempo convincere il protagonista a sottoporsi all’“operazione intimità”; poi seguirlo per mesi per poterlo raccontare. Tutto ciò presuppone conoscenza del mezzo televisivo e del suo pubblico di riferimento; significa empatia, sensibilità, pazienza, determinazione e molte altre doti. Una non secondaria è la morigeratezza nell’utilizzare il budget a disposizione, che non è certamente da “blockbuster” e può facilmente non essere sufficiente, e dal quale è spesso necessario fare astrazione pur di portare a casa il prodotto (tradotto: lavorare gratis).
Ancora: firmare un documentario per “Storie” significa metterci moltissimo del proprio come autorialità, sguardo, impronta, segno, che sono appunto il bollo, il marchio che ognuno dei realizzatori può, alla fine, apporre al suo prodotto.
Non è noto a tutti che molti dei documentari sopra elencati sono stati realizzati dai cosiddetti “esterni”, ovverosia quel nutrito gruppo di registi (oggi circa una ventina) senza contratto Rsi, a libro paga di ditte esterne che quando possono li accompagnano nell’arena del servizio pubblico per cimenti più o meno significativi (e realizzare un documentario, come abbiamo cercato di spiegare, lo è senz’altro). Nel corso degli anni circa la metà di tutti i lavori passati a “Storie” sono arrivati da lì, ovverosia da situazioni spesso scomode, di precariato puro, in cui poter fare un film significa avere paga garantita per 4 o 5 mesi, più un giorno in copertina, ben sapendo che poi si tornerà inevitabilmente nel limbo, fra corsi “costruisci il tuo curricolo” e ricerche di lavoro.
Con il momentaneo blocco di “Storie” già stanno pagando, e continueranno a farlo, soprattutto loro, gli esterni, che esattamente alla stessa stregua dei contrattualizzati fissi costituiscono l’anima di un’importante tradizione radiotelevisiva ticinese. L’auspicio è che a quest’anello per sua stessa condizione debole continuino a venir riconosciuti valore, merito e spazio. Chiedere precise garanzie è probabilmente eccessivo; non lo è parlare di tutela o, più semplicemente, dignità; non solo artistica.