Gli applausi scroscianti della Sala Teatro del Lac alla visione di Romeo Castellucci, portata in scena dalla grande attrice francese
Uscire da teatro senza volerlo lasciare, anzi, volendoci tornare se possibile la sera seguente. C’è chi l’ha fatto per questa Bérénice messa in scena dal regista visionario Romeo Castellucci, e se ne comprendono i motivi. Tra i tanti la potenza evocativa dei versi alessandrini di Jean Racine, che nel loro ritmo cadenzato (complice il rintocco di una campana quasi a morto), nella forza della rima, hanno accompagnato lo spettatore in questo viaggio all’interno del vissuto emotivo della protagonista. Una Bérénice magistralmente portata in scena dall’immensa Isabelle Huppert, paralizzata dalla tragedia che la colpisce, da regina immobile e monocorde, con una potenza statica di cristallo, a mendicante che implora senza più dignità sino a risorgere, come quella Fenice così spesso evocata nel testo, a dea suo malgrado. La partitura sonora incredibilmente precisa e perfetta di Scott Gibbons – che da anni collabora con il regista ravennate, Leone d’Oro alla Biennale teatro nel 2013 – si fonde con le distorsioni vocali di Isabelle Huppert in un crescendo di tensione e sfaldamento che dalla compostezza fino all’afasia accompagna lo spettatore in un mondo dove le parole prendono il sopravvento sulla materia. Accasciandosi poi su sé stesse: non sono state sufficienti all’amore.
La scenografia è monumentale, in un gioco di drappi e tessuti che dal bianco candore si tingono di nero e poi vermiglio. Pochi oggetti simbolici in scena, tra i quali un calorifero ultimo vestigio di un amore ormai finito e la lavatrice dalla quale Huppert estrae un velo da sposa macchiato e compromesso, richiamano quel che resta di una quotidianità amorosa. Ma anche una barra di rame, due giganteschi metronomi, un cane campana di risonanza, che vengono via via inghiottiti dietro le quinte da avide mani. La scena si svuota, la solitudine rimanda solo echi disperati, uno specchio anziché una finestra.
I nostri corpi sono una somma di elementi, come ci ricordano le scritte iniziali, la tragedia si consuma nel linguaggio, che alla fine non può più e implode in un urlo straziato, “non mi guardare”.
Ma veniamo alla storia di Bérénice, necessaria perché questo spettacolo non sia solo impatto visivo e sensoriale. La riscrittura di Castellucci, che dal testo di Jean Racine decide di estrarre solo le parole della protagonista, eliminando tutte le parti maschili (e sono molte) che la contornano, conferisce a questo testo scritto nel 1670 la contemporaneità che vediamo in una scena postmoderna. Il lungo monologo di un’ora e mezza, inframmezzato da scene corali senza parole, racconta l’incredulità prima, il sogno, la presa di coscienza, la disperazione e la follia che Bérénice vive dal momento in cui viene a conoscenza della fine di un amore. Abbandono e solitudine in una trama che dice la vita di questa regina di Palestina che sta per sposare Tito, figlio di Vespasiano, ma viene abbandonata per i valori della ragion di Stato. La percepiamo subito questa ragion di Stato, nel bisbiglio corale dietro i drappi, nella massa indistinta di un popolo cospiratore, nell’avidità quasi baldanzosa ma poi disperata di Tito. Un imperatore romano non può sposare una straniera, e non lo farà. A lei tutto il carico emotivo di questa scelta che viene comunicata attraverso terzi (l’amico e di lei innamorato Antioco), e che l’imperatore non intende rivedere, né tantomeno discutere. La donna affronterà tutto questo fardello che ci viene trasmesso in alessandrini a volte sbrindellati a volte flusso poetico, in un clima di profonda freddezza.
La forza del dramma è tutta nel percorso e nella scelta di Bérénice di non morire, come già la Didone del mito virgiliano, ma di alzare la testa e andarsene con la dignità che resta. Un percorso che l’uomo è incapace di fare, ne manca la profondità, sono assenti le parole. L’uomo è fragile e la virilità del potere vacilla. Due danzatori (Cheikh Kébé e Giovanni Manzo) sembrano incarnare nella loro magrezza cupidigia e avidità – quasi due fiere dantesche, corpi più adolescenti che uomini, sono Tito e Antioco. La loro è una coreografia orchestrata di gesti che rimandano alla schiettezza del cibo, dei soldi, di una palla da basket che rimbalza. Poi un coro di figuranti (chiamati di volta in volta nella città dove si svolge la rappresentazione), che nello spettacolo affrontano quasi con sacralità una processione indistinta. Avviluppano, mettono in mostra, si muovono in sincronia.
Il fumo del ghiaccio freddo, la quarta parete concretizzata nel velo di garza, la compostezza e solennità di Isabelle Huppert, conferiscono allo spettacolo il distacco e la freddezza necessari perché si arrivi alla scena finale completamente demuniti. Fiori giganteschi che sfioriscono, dai quali si distacca Bérénice – nei rimarcabili costumi di Iris Von Herpen – che colta da afasia poi risorge potentissima, perché si è finalmente disfatta delle parole e dello sguardo altrui. Un viaggio che non lascia indifferente la sala, che esplode così in uno scrosciante e liberatorio applauso, dedicato in gran parte alla magnifica Huppert.
‘Bérénice’, prodotto dalla Societas di Cesena e Printemps des Comédiens / Cité du Théâtre Domaine d’O di Montpellier, dopo la prima all’interno della rassegna FOG al Teatro della Triennale di Milano, riparte dal Lac di Lugano (tra i numerosi coproduttori) per una tournée europea.