L’irresistibile charme latino sempre rifiutato, la consapevolezza della fine, un uomo capace di nascondersi in piena luce. A cent’anni dalla nascita
Inevitabilmente, è il paradosso di Marcello Mastroianni che colpisce sempre. L’attore, il volto, il corpo che incarnano la quintessenza di una certa idea di cinema italiano, sono gli elementi identificativi di un uomo che ha saputo – sin da subito – nascondersi in piena luce. Straordinario lavoratore, dotato di una potentissima memoria eidetica, simbolo di un irresistibile charme latino, cosa cui detestava essere associato e che ha sempre rifiutato. Clamorosa, in tal senso, l’ironia esibita nel talk show di Dick Cavett dove ironizza spietato sul proprio mito sotto gli occhi divertiti di Sophia Loren. Chiacchierando con John Boorman di passaggio a Roma, chiesi della collaborazione con l’attore per Leone l’ultimo (uno dei film meno noti di entrambi). Boorman rispose, illuminandosi, che “Marcello era sempre gentilissimo con tutti, colleghi e maestranze. Un giorno, però, si presentò sul set cupo e irritabile. Alle mie ripetute domande su cosa lo inquietasse, sbottò: “John, in Italia hanno approvato la legge sul divorzio. Sono finito!”.
Per un paradosso tutto italiano, e nonostante l’enorme mole di documentazione, Mastroianni è anche l’attore più… invisibile di sempre (o forse “poco” visto...). Proviamo a spiegare. “Invisibile” lo era come solo John Wayne o Cary Grant, sotto altre latitudini, hanno saputo essere. Mastroianni è geniale e irripetibile nel suo essere solo sé stesso e comunque sempre devotamente al servizio del regista che lo desidera. Un’arte – la sua – quella di scomparire per esistere come emanazione di un’idea. Laddove John Wayne era impercettibile solo nelle mani sapienti di John Ford e Cary Grant rifulgeva invisibile in quelle di Hitchcock o Howard Hawks. Per intenderci: gli attori davvero talentuosi sono quelli che sullo schermo scompaiono – apparentemente – e permettono di pensare che fare un film sia facile. Questo è il magistero esclusivo dei più grandi. John Ford, con il gusto della provocazione burbera che gli era congeniale, affermava: “Ci abbiamo messo una vita a eliminare il teatro dal cinema e poi è arrivato Elia Kazan con Marlon Brando, James Dean e siamo di nuovo al teatro”. Mastroianni, invece, è l’attore cinematografico per eccellenza, nonostante la sua formazione teatrale. Un talento irripetibile il cui magistero a tratti sembrava impenetrabile o incomprensibile perché si presentava avvolto dalla sua presenza definibile solo negativamente, ossia per tutto ciò che non era. Come un sortilegio, riusciva a incarnare sempre il personaggio, lasciando Mastroianni nel camerino senza incorrere nel camaleontismo, ossia il narcisismo al contrario. Lo si può definire, forse, solo per altri paradossi: sparire sino ad… apparire; al punto da non poter essere mai più dimenticato (basti pensare al genio purissimo della sua interpretazione in La donna della domenica di Luigi Comencini).
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Con Federico Fellini e Sophia Loren sul set di ‘8½’
Inutile evocare i tanti capolavori nei quali ha lasciato un marchio indelebile diventando così il segno stesso della poetica di un autore. Il rifiuto sdegnato del mito dell’amante mediterraneo diventava precisa posizione poetica e politica nel cinema di Marco Ferreri, regista che frequentava assiduamente a Parigi quando si trasferì nella capitale francese abbandonando l’amatissima Roma e i suoi luoghi canonici come Canova, Rosati, Battistoni, via Margutta. Ben sette film insieme, una collaborazione che è uno spietato atto d’accusa del maschilismo. Aveva incominciato giovanissimo, Mastroianni, con ruoli minuscoli per registi come Carmine Gallone (Marionette), Mario Camerini (Una storia d’amore), Alessandro Blasetti (La corona di ferro) e Vittorio De Sica (I bambini ci guardano). Il grande Riccardo Freda lo convoca per I miserabili, dove finisce fucilato fra i rivoluzionari. È Luchino Visconti, però, il vero artefice della sua formazione artistica. A Enzo Biagi (autore del libro – magnifico – La bella vita - Marcello Mastroianni racconta) rievocava così quell’incontro leggendario: “Recitavo con Giulietta Masina e a vedere lo spettacolo venne Emilio Amendola, l’amministratore della Compagnia Visconti e zio del famoso doppiatore Ferruccio. Cercavano un attore giovane. Mi disse: “Tu vuoi fare del teatro vero?”. “Io studio: ma certo, perché no?”. Mi recai all’appuntamento in una sala da tè a Piazza di Spagna.
C’era anche Zeffirelli, che era il suo assistente. Visconti fu estremamente chiaro: “Il signor Amendola dice che hai delle qualità: vedremo. Se sarai bravo, avrai il ruolo, se no farai la comparsa”. Lui, come ricordava sempre, figlio della classe operaia, non si faceva troppe illusioni. Considerato fra i più promettenti “attor giovani” del tempo, viene poi ingaggiato da Luciano Emmer, un altro regista chiave per Mastroianni, il quale con Domenica d’agosto inaugura una collaborazione che andrà avanti per cinque film. Spetta però a Blasetti l’intuizione di affiancarlo – per la prima volta – a Sophia Loren in Peccato che sia una canaglia.
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Il Guido Anselmi di ‘8½’
Interprete che ha letteralmente attraversato tutta la storia del cinema italiano, ha diretto la sua carriera con un’attenzione meticolosissima fatta di scelte e innamoramenti. Il commiato da Fellini avviene con il magnifico Intervista nel quale, vestito da Mandrake, evoca il magistero di un cinema che non c’è più insieme ad Anita Ekberg. “E ora cari amici, col vostro permesso, vorrei esibirmi in un piccolo giochetto per onorare la nostra amatissima ospite… Alla bacchetta di Mandrake, il mio ordine è immediato: fai tornare i bei tempi del passato! Music!”. Uno schermo bianco appare da uno sbuffo di fumo. Mastroianni passa dietro lo schermo e inizia a ballare con la sagoma di Anitona. Per incanto appaiono le immagini della Dolce vita. Marcello e Anita abbracciati mentre in controcampo Mastroianni ripete, al presente, sognante le battute del capolavoro felliniano di ieri. La macchina da presa si avvicina divertita, commossa: “Quante domande ti vorrei fare ancora. Per esempio: che c’avresti ‘n goccettino de grappa?”. Impeccabile la replica di Anitona: “Ma vaff… Marcellino!”. E Mastroianni, trattenendo una risata come Oliver Hardy: “Uh uh uh, non mi far ridere: mi si staccano i baffi…”.
La consapevolezza della fine, della sua e del mondo di cui era espressione (anche suo malgrado) la mette in scena con film esemplari come Il volo di Theo Angelopoulos (dove nel finale è avvolto da uno sciame di api impressionante), in Tre vite e una sola morte di Raul Ruiz (titolo che da solo riassume tutta un’esistenza) e, infine, Viaggio all’inizio del mondo di Manoel de Oliveira, il suo commiato. Renato Berta, direttore della fotografia, in un momento di tranquillità a Locarno, mi raccontava. “Stavo provando le luci, e per farlo non si usano gli attori. Mastroianni stava in disparte osservando il lavoro sul set e mi dice: “Renatino, vieni, dai, che facciamo le luci insieme”. Ecco, una cosa così in tanti anni di set e di lavoro non mi era mai capitata. Una persona di una straordinaria umiltà e umanità. Lui sapeva che Manoel si stava preparando per la sua morte che avvertiva prossima ed era consapevole che Manoel sapeva anche che Marcello non stava bene, ma hanno messo insieme le loro paure per fare un film nel quale Mastroianni è diventato De Oliveira. Ecco, un attore come Marcello Mastroianni non ci sarà mai più”.
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Nel 1993 a Los Angeles