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Un anno dopo, sempre ‘Searching for Sugar Man’

Cantante è la metà di quel che è stato Sixto Rodriguez, riscoperto da un documentario alla veneranda età di 70 anni. Moriva l'8 agosto di un anno fa

A Montreux nel 2013
(Keystone)

Sorpreso dalla canzone che apre il documentario in cui ti imbatti per caso, il solo modo di vederci chiaro è aspettare i titoli di coda. Ma in pochi minuti saprai che il soggetto è quella stessa voce noncurante e nasale che arriva, del tutto sconosciuta, dalla fine degli anni Sessanta.

Un paesaggio montuoso arido e ocra, a ridosso di una strada. Un’auto che procede sulla corsia di sinistra, indizio non da poco visto che già escludi la Gran Bretagna. Dall’altra parte delle montagne, il mare. La voce che canta alla radio si abbassa, l’uomo che guida (a destra) inizia a parlare. La terza nascita di Sixto Rodriguez autore e cantante, quella del riconoscimento universale, si deve a questo documentario, ‘Searching for Sugar Man’, scritto e diretto dallo svedese Malik Bendjelloul e uscito nel 2012. La prima delle nascite, con due Lp pubblicati a un anno di distanza, fu potente e personale ma dalle ripercussioni inesistenti. La seconda davvero dirompente e concentrata in un solo surriscaldato Paese, il Sudafrica. E mentre l’uomo al volante racconta compare la scritta: “Cape Town, South Africa”. Ma il seme di tante nascite è lo stesso, la voce di Sixto Rodriguez e due Lp: ‘Cold Fact’ (1970), ‘Coming from Reality’ (1971). Ma allora “Nessuno era interessato ad ascoltarlo”, dice quarant’anni dopo uno dei produttori di quegli album. Non era il tempo giusto per Detroit, era il tempo perfetto per Cape Town e per l’intero Sudafrica, oppresso e isolato dall’apartheid. In Sudafrica credevano che ovunque fosse famoso com’era lì e che fosse morto. Invece era ignoto ovunque salvo là, ed era vivo. Ma morto o vivo che fosse, nessun mezzo per fare qualche passo per trovarne le tracce. Ci si misero un giornalista, Craig Bartholomew Strydom, e il proprietario di un negozio di dischi, Stephen ‘Sugar’ Segerman, scrutando nelle copertine degli Lp, setacciando le parole delle canzoni. Siamo nel 1996, a quasi trent’anni dai due album. Ma il Sudafrica in che anno era, con le frontiere blindate? “Born in the troubled city/ In Rock and Roll, USA/ In the shadow of the tallest building”, inizia ‘I Can’t Get Away’. Più avanti si legge: “In a hotel room in Amsterdam...”. In ‘Inner City Blues’: “Met a girl from Dearborn, early six o’clock this morn, / A cold fact”. Mentre ripete il verso e mezzo Strydom apre un armadio e tira fuori un atlante geografico. Cerca nell’indice Dearborn. Risale a uno Stato, il Michigan, e a una città, Detroit. La ricerca procede con le etichette, i produttori, e arriva a quello di ‘Cold Fact’, Clarence Avant, direttore della “Sussex”, fugace etichetta (1969-1975) di un tipo dalla carriera non fugace, produttore di Miles Davis, Michael Jackson, Stevie Wonder, Quincy Jones, Dionne Warwick.

Emozioni

“Tipo” non è detto a caso. Il drappello di produttori e agenti che appare nei documentari musicali non è la parte meno interessante e utile: si emozionano più di tutti, ricordano aneddoti che sanno solo loro, dimenticano i numeri, specie in relazione ai profitti, diritti, ecc., non facili da ricordare francamente a tanta distanza di tempo. Dei produttori intervistati qui, Avant è il vero boss, ex presidente della Motown Records. Strydom dice che aveva cento domande da fare, tra le quali: “How Rodriguez died?”. E conclude: “Cercando un uomo morto, ne trovo uno vivo. La ricerca era finita. Ma ho pensato che la fine di una storia poteva essere l’inizio di un’altra, la parte migliore”. La parte che inizia così, per noi: una casa di mattoni rossi, una finestra dalla chiusura a ghigliottina che riflette rami mossi dal vento, il vetro si solleva lentamente e appare un uomo con una camicia nera, con gli occhiali da sole, i capelli lunghi. Qui comincia la seconda vita prima sudafricana e poi statunitense, non so quanto in realtà, ma australiana certamente e anche europea. Tutte lo lasciarono intatto, non perché la rinascita gli fosse indifferente. Indifferente no, ma sì felice e intatto, alimentando il fuoco di una stufa nella camera da letto.

Conversazioni con i veri protagonisti, veloci con lui per le risposte brevi e imbarazzate. Alla domanda, per esempio, “Quando hai smesso di cantare, cos’hai fatto?”, la risposta: “Demolition, renovation of buildings, you know, of homes...”. Conversazioni più lunghe con l’una o l’altra delle tre figlie, con due colleghi muratori. Paesaggi urbani periferici illustrati dalle parole di canzone e soprattutto un uomo che cammina. Esce di casa e avanza nella neve, lentamente per non scivolare, attraversa una strada e continua sul marciapiede. Altre uscite seguendo la stessa linea, uscendo di casa o rientrando. E lentamente sempre perché in realtà cammina così. Il passo ti riporta alla voce poiché si assomigliano. Pensi che quest’uomo ha infuocato un intero Paese con quella voce pausata, spesso malinconica, cantando d’amore o d’ingiustizia sociale. Pensi a come la mitezza e la fragilità non occultata possano infuocare (e che lo stesso Mandela ha usato strumenti simili). Che narrare fallimenti con distacco, o cosiddetti fallimenti, può incoraggiare alla lotta a 13’000 chilometri di distanza.

Ora quello stesso uomo che cammina o siede in silenzio in casa atterra a Cape Town, con una delle figlie. È il 2 marzo del 1998. Il 6 tiene il primo di sei concerti. E i musicisti sono quelli di una delle band cresciute con le sue canzoni. Un uomo che sorride felice in quei giorni sudafricani, che divide il ricavato di tutti gli altri concerti, non solo sudafricani ma australiani e in giro per l’Europa, tra la famiglia e gli amici. Che ora è di nuovo a casa a ravvivare il fuoco della stufa.

‘I wonder’

Il regista di ‘Searching for Sugar Man’ (premio Oscar) Malik Bendjelloul – anche la sua è una storia a parte, che si è conclusa – ricorre a dei leitmotiv com’è naturale e com’è bello. Il rosso-ocra del paesaggio della prima scena diventa una delle tante variazioni in rosso che vedremo, quasi un colore chiave. Prima che il ritrovamento avvenisse, a film molto avanzato, già un uomo attraversava una strada, di notte, intorno al minuto dieci. Ma non puoi ancora riconoscerlo. Lo riconoscerai alla seconda o terza visione, quando potrai sentire i brividi, per una scena o per l’altra, ormai non più di cinque volte. Una di queste all’inizio del primo concerto sudafricano, ai gridi e ai sorrisi, all’incredulità e felicità generale e all’avvio della canzone di apertura, ‘I Wonder’ (“I wonder how many times you’ve been had/ And I wonder how many plans have gone bad”).

Mi rimprovero di aver messo quasi nessun verso in questo discorso. Un atto imperdonabile. Ma un articolo è poco per il tema, anche se fosse il doppio di questo. Ci vorrebbe un libro e per fortuna l’hanno già scritto i due soli che potessero farlo, Craig Bartholomew Strydom e Stephen ‘Sugar’ Segerman.

Cantante è la metà di quel che è stato Sixto Rodriguez. Cantautore è uno sbrigativo composto ancora vivo per non aver trovato di meglio. Di storyteller non se ne può più. Ma tanto possiamo chiamarlo poeta.

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