laR+ La recensione

‘Civil War’ e l’etica delle immagini

Una riflessione su quello che in America si dice ‘graphic content’ partendo dal futuro post-trumpiano raccontato nel film di Alex Garland

Kirsten Dunst è la reporter di guerra Lee Smith
12 giugno 2024
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Interrogato sulle recensioni negative che hanno accolto il suo ‘Unfrosted’, su Netflix, il comico americano Jerry Seinfeld ha detto – nel podcast condotto da Bari Weiss – di trovarle divertenti: “Volevano ridere. Lo capisco, mi immedesimo con loro. Trovo sia divertente che abbiano odiato il film perché volevano ridere e non hanno riso”. Lasciando da parte qualsiasi giudizio su ‘Unfrosted’ (strana operazione a metà strada tra lunga pubblicità a una nota marca di cereali, omaggio a un’America pura e semplice che forse non è mai esistita, e commedia piena di sketch loffi), Seinfeld coglie un punto: le aspettative, spesso, sono decisive nel modo in cui un film viene percepito e criticato. Certo, va detto anche che quasi sempre è colpa del film stesso. Cosa avremmo dovuto aspettarci dal primo film da regista (il secondo da sceneggiatore dopo ‘Bee Movie’) di uno dei più grandi comici della storia della stand-up, se non ridere?

Un discorso simile vale per ‘Civil War’, il nuovo film di Alex Garland e della A24. Un regista al tempo stesso indie e mainstream, che piace agli intellettuali e tratta temi alla moda – l’intelligenza artificiale in ‘Ex Machina’, la violenza di genere in ‘Men’, mentre ‘Annientamento’ parla vagamente di collasso climatico ed è basato sul libro omonimo di Jeff VanderMeer, uno degli scrittori di fantascienza più apprezzati degli ultimi tempi – insieme alla casa di produzione che, anche proprio grazie a Garland, ma non solo, ha avuto l’impatto maggiore sul nostro immaginario, osando con idee originali, mischiando generi e spingendo forte sul pedale dell’estetica – un ultimo esempio è arrivato da ‘La Zona d’Interesse’, fresco vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero.

‘Civil War’ è stato presentato come film di guerra ambientato in un’immaginaria America post-trumpiana, una distopia non molto lontana dalla nostra realtà attuale, più un avvertimento che una profezia. Con protagonisti Kirsten Dunst, che ormai fa un film ogni tre o quattro anni, più depressa e stanca che mai nei panni di una fotoreporter, e Wagner Moura, il Pablo Escobar di ‘Narcos’, nel ruolo di un giornalista che vuole intervistare il presidente di quello che resta degli Stati Uniti. Il trailer è arrivato come un pugno nello stomaco, saturo di immagini apocalittiche: aerei da guerra nel cielo di New York, elicotteri che volano intorno all’obelisco dedicato a George Washington e carri armati che sparano sul Lincoln Memorial. E poi c’è quella scena che sembra fatta apposta per far esplodere i cervelli degli spettatori, e spingerli in sala a cercare risposte, con Jesse Plemons in abiti militari e dei buffi occhiali rossi (un filtro color sangue sul mondo, forse una citazione di ‘Natural Born Killers’, anche se a quanto ha detto Plemons nelle interviste si è trattato di una sua idea per distinguere in modo forte e da subito il suo personaggio). Nella scena, Wagner Moura, sotto la minaccia delle armi, cerca di tranquillizzarlo: “Siamo tutti americani qui”. Jesse Plemons, come al suo solito tanto più terrificante quanto calmamente pronuncia le sue battute, risponde grattandosi una guancia: “Ok. Che tipo di americani siete?”.

Risposte

Insomma era normale aspettarsi un qualche tipo di commento sulla nostra società polarizzata, sempre più suddivisa in frazioni di frazioni rivolte le une contro le altre, in cui sembra impossibile capirsi, dialogare, tollerare posizioni diverse e magari, perché no, cercare compromessi. Come hanno fatto ad arrivare a quel punto gli Stati Uniti d’America? Quale è stata la causa scatenante, la goccia che ha fatto traboccare il vaso in cui noi, sempre più vicini all’orlo, sentiamo di galleggiare? E soprattutto: come si risolve una situazione del genere, c’è un’alternativa all’autodistruzione della civiltà occidentale? Quindi il primo motivo di delusione, almeno per un certo tipo di spettatori, è che ‘Civil War’ non risponde a nessuna di queste domande. Anzi, in modo un po’ cinico e furbo, sembra alludere al fatto che non siano domande importanti, che in realtà non c’è un punto di non ritorno, che i pesci non sono consapevoli di nuotare nell’acqua, come diceva David Foster Wallace, e che noi siamo i pesci e la guerra è l’acqua in cui già adesso stiamo nuotando. Il che ha una sua coerenza: Garland, in fin dei conti, non poteva certo girare un documentario in anticipo sui tempi e si sa che la realtà supera spesso la fantasia. Il film avrebbe rischiato di invecchiare male e ingiallire davanti alla realtà per una ragione (perché un conflitto del genere, se mai ci sarà, esploderà in un modo impossibile da prevedere) o per l’altra (perché magari non esploderà mai).

Nonostante ciò, non dovrebbero perdere di forza le immagini scioccanti di fosse comuni e impiccagioni lungo i ponti delle autostrade americane, sono crimini che il cinema e la televisione hanno sempre mostrato, con un implicito colonialismo, come questioni aliene alla cultura occidentale. Le immagini di Garland anticipano una futura esperienza, senza la consolazione di una qualsivoglia spiegazione. L’avvertimento del film, se voleva essercene uno, è questo: occhio che non siamo al riparo di quei crimini che vediamo sui nostri feed, se le piattaforme non ce li censurano.

Guerra etnica

Da questo punto di vista il difetto di ‘Civil War’, semmai, è che provando a dire il meno possibile, dice comunque troppo. Nella già citata scena con Jesse Plemons, ad esempio, la questione centrale è la provenienza dei vari personaggi. Dato che una parte di America è in guerra con l’altra, lui, ideologicamente, discrimina chi vive e chi no sulla base dell’origine geografica. Così facendo, però, Garland ci sta dicendo che quella specifica di cui parla il film è una specie di guerra etnica, mentre il conflitto attuale sembra essere più politico, per così dire, o comunque intersezionale, basato su molteplici aspetti dell’identità individuale – colore della pelle, genere, sessualità, abilità, classe sociale. Insomma Alex Garland sembra aver peccato di superficialità nel tentativo di dare vita a una riflessione più profonda, e questa ormai, anche se il campione di film realizzati è relativamente piccolo, sembra una cifra stilistica. In ‘Ex Machina’ la complessità del rapporto tra esseri umani e intelligenze artificiali diventati pienamente consapevoli e “vivi”, si risolve in una specie di triangolo amoroso; in ‘Annientamento’, Garland ha aggiunto un finale che nel libro non c’era e che non è piaciuto a nessuno, inventandosi di sana pianta un altro umanoide che ingaggia una lotta con Natalie Portman; in ‘Men’ la trovata di far interpretare tutti i personaggi maschili allo stesso attore inglese, Rory Kinnear, con una somiglianza che emergeva sotto gli strati di trucco e parrucco, beh non faceva altro che far coincidere il loro essere inquietanti con il loro essere distintamente inglesi (per non parlare, anche qui, di un finale al limite con la comicità involontaria).

Empatia e indifferenza

Garland non va molto in profondità e anzi rischia di essere contraddittorio anche quando affronta il vero tema del film: l’etica delle immagini. È giusto mostrare l’orrore, cercare la bellezza, persino, nella tragedia? Kirsten Dunst è una fotografa di guerra stanca e apparentemente fredda, che non esita a far mettere in posa un miliziano tra i corpi appesi di due persone che sta torturando. Prende sotto la sua ala un’aspirante fotografa, Cailee Spaeny, e la instrada verso un mondo di freddezza. Quando la giovane fotografa piange in macchina, mentre sono dirette a Washington per fotografare il presidente e strappargli un’ultima citazione prima che il governo centrale perda la guerra, quella matura si scoccia. Per riuscire a fotografare, sembra dirci il personaggio di Kirsten Dunst, bisogna essere indifferenti. Delle foto conta solo il valore estetico, oltre alla portata storica, al valore informativo e di memoria (che però passa in secondo piano in un contesto come quello contemporaneo iper mediatizzato, anche se in ‘Civil War’ i soldati non si fanno i selfie nelle case distrutte né combattono con camere GoPro montate sul caschetto). Ovviamente i ruoli si invertono e alla fine del film è Kirsten Dunst ad abdicare alla sua missione artistico-documentale, ormai esausta e disperata, mentre Cailee Spaeny si ritrova nelle vene sangue freddo come ghiaccio. Il finale – senza spoiler – sembrerebbe alludere al fatto che non ci sia scelta tra un’empatia disperata e la cinica indifferenza, e che siano semplicemente modi diversi di partecipare alla realtà, che non esista una posizione semplicemente neutrale, di pura osservazione.

Estetizzazione

Non è chiaro quello che voglia davvero dirci Alex Garland e forse è una presunzione arrogante ritenere che abbia voluto dirci qualcosa in particolare, anziché, semplicemente, fare un film bello da vedere su una cosa terribile da immaginare. ‘Civil War’ rappresenta da una parte il cinema come “cattivo sogno” della società dello spettacolo, citando Guy Debord, e dall’altra ci mette in guardia su “ciò che gli esseri umani sono capaci di fare, ciò che – entusiasti e convinti d’essere nel giusto – possono prestarsi a fare. Non dimenticatelo”, stavolta citando Susan Sontag in ‘Davanti al dolore degli altri’. In ‘Civil War’, però, resta preponderante l’estetizzazione, resta un esercizio di stile, in un’epoca in cui involontariamente ci capita di vedere immagini atroci e insostenibili ogni giorno sui nostri telefoni. La rivolta del nostro stomaco e del nostro pensiero di fronte alla distruzione e alla morte, quando reali, e la nostra capacità di distinguere le immagini vere da quelle false, per quanto realistiche – perché in ‘Civil War’ non ci disturbano immagini di cadaveri pendenti o gente che va a fuoco, mentre nella nostra quotidianità la semplice esposizione di corpi estratti dalle macerie è insostenibile (questo vale anche per le manipolazioni dell’intelligenza artificiale)? – sono gli unici appelli del nostro comune senso etico, della nostra umanità. Se un’immagine di guerra non ci fa male, se lo sguardo che posiamo su di essa è sostenibile, i casi sono due: o non è vera, oppure siamo noi ad aver smesso di essere umani.

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