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Natural born Springsteen (quarant’anni di ‘Born in the U.S.A.’)

La canzone più fraintesa e l'album più mainstream di sempre, quello di chi a un certo punto decide di flirtare con il pop, perché non è reato

East Rutherford, New Jersey, 6 agosto 1984
(Keystone)
4 giugno 2024
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“Abbiamo fatto un sacco di foto e alla fine si è scoperto che quella del mio sedere è molto meglio di quella della mia faccia”. E “no, non c’è nessun messaggio segreto”. Se il fraintendimento dei fraintendimenti legato a ‘Born in the U.S.A.’ resta quello di Ronald Regan, che scambiò la canzone per un inno patriottico per quell’errore della politica sempre a caccia di inni gratuiti e autoriferibili, nemmeno la copertina dell’omonimo album, pubblicato giusto quarant’anni fa, fu esente da interpretazioni: nello scatto di Annie Leibovitz, colei che ritrasse Lennon nudo avvinghiato a Yoko poche ore prima di essere ucciso, Bruce Spingsteen in jeans e t-shirt bianca posa celentanamente di spalle, regalando un lato B che con il vessillo a stelle e strisce davanti spinse il recensore fantasioso a gridare allo scandalo per la postura, ritenuta quella di chi orina in piedi. Due errori di valutazione, il patriottismo e il vilipendio alla bandiera, a proposito di un disco che è un nuovo spaccato di vita americana dal suono dichiaratamente e smaccatamente mainstream, quello di chi a un certo punto decide di flirtare con il pop perché non è reato.

Per i puritani del rock che storsero il naso su ‘Hungry Heart’ (1980, da ‘The River’, prima hit del Boss a entrare nella Billboard Hot 100), ‘Born in the U.S.A.’ fu una specie di anticristo, ma i puritani, come quelli che al Newport Folk Festival del 1965 fischiarono Dylan con l’elettrica, difficilmente fanno la storia, o ne scrivono una tutta loro. Quanto al berretto rosso da baseball che spunta dalla tasca posteriore, nessuna cospirazione, né politica e né sportiva, solo il gesto d’affetto dell’artista nei confronti dell’amico Lance Larson il cui padre se n’è andato e il Boss vuole che rimanga in vita attraverso la cover. Il font è un Bodoni, più o meno Condensed. Tutto il resto è dentro.


Dal 14 giugno anche in vinile rosso (più chicche)

Tastieroso

Senza scomodare Andre Agassi, marchiato a vita (o almeno per lungo tempo) da uno spot televisivo che recitava “l’immagine è tutto”, in ‘Born In The U.S.A.’, uscito con quel titolo perché aperto da quella canzone, la copertina conta fino a un certo punto. Successivo al dolente, depresso e minimalista ‘Nebraska’ (1982), nel consolidamento della carriera di Springsteen ‘Born in the U.S.A.’ conta quanto ‘Born To Run’. E se nel 1975 il primo ‘Born’ riscattò un esordio discografico non proprio idilliaco, infilandosi nel regno di Elton John che da anni occupava mezza Billboard, il secondo ‘Born’ portò il Boss dalle parti di Madonna e Michael Jackson: “Ci sono dischi che vivono di vita propria e non puoi farci nulla”, scrive Springsteen nella sua autobiografia (‘Born to run’, anch’essa 2016), “ecco perché a un certo punto decisi di approfittare della situazione e arrendermi a quello che sarebbe diventato il bestseller della mia carriera”.

Al contrario degli artisti sempre in cerca di nuove verginità sonore, quelli che amano recriminare su epoche ‘tastierose’ della propria carriera – e in ‘Born in the U.S.A.’ i sintetizzatori di Roy Bittan, splendido pianista, vanno ben oltre l’ingrediente aggiunto –, Bruce non rinnegherà mai né il disco e tanto meno la canzone, facendone semmai versioni acustiche alternative in cui mostrare che il contenuto, quando esiste, sopravvive alla forma. E che l’immagine, checché ne dicesse Agassi nel 1990, non è tutto.

Grazie, Paul Schrader

“Avevo il testo, un titolo fantastico, due accordi, un riff di sintetizzatore, ma nessun vero arrangiamento. Era il secondo take. Un muro del suono si riversò nelle mie cuffie. Iniziai a cantare (…) Quattro minuti e trentanove secondi dopo, avevamo inciso ‘Born in the U.S.A.’. Posati gli strumenti, ci spostammo in regia ad ascoltarla”. Alla Hit Factory di New York fu un ‘buona la seconda’; in casa, dove la canzone nacque, decisivo fu il titolo di un copione intitolato ‘I was born in the U.S.A.’, consegnato a Springsteen dal regista e sceneggiatore Paul Schrader, l’uomo dietro a ‘Taxi Driver’, ‘Tuta blu’ e altri film dal tema sociale importante. Schrader che il Boss ripagherà per quel “furto felice” regalando al suo ‘La luce del giorno’, film uscito due anni più tardi e con il rock sullo sfondo, la canzone ‘Light Of Day’.

Il verso ‘I was born in the U.S.A.’ chiude il cerchio di una storia di soldati ispirata a Springsteen dai veterani Bobby Muller, al tempo presidente della Vietnam Veterans of America, e Ron Kovic. Una storia il cui incipit (‘Born down in a dead man’s town’) non dovrebbe lasciare spazio a frantendimenti. Ma per spiegarsi il fatto che ‘Born in the U.S.A.’ sarebbe diventata la canzone più fraintesa della storia, l’autore un giorno avrebbe chiamato in causa il test di Rorschach: “Ci sentiamo quello che vogliamo sentirci”.

Il maestro dell'horror

La prima metà dell’album ‘Born in the U.S.A.’ viene registrata contemporaneamente a ‘Nebraska’, in session che sfornano dalle 70 alle 90 canzoni, molte delle quali troveranno posto come lati B di singoli o in raccolte successive; dei due album, Springsteen quasi vorrebbe farne un doppio, metà acustico e metà elettrico, prima di accorgersi che i due lavori sono isole acustiche senza ponti di collegamento. Il grosso di ‘Born in the U.S.A.’, più tardi mixato dal Re Mida dei missaggi, Bob Clearmountain, si prende tre settimane di studio, poi l’insoddisfazione per il risultato troppo pop assale l’autore, che prova a rimescolare le carte e torna infine alla setlist originaria.

Di fronte a cotanto pop, Jon Landau – critico musicale che nel 1974 vide in Springsteen “il futuro del rock and roll” e per questo, chiamalo scemo, ne divenne manager e produttore – sostiene che l’album non avrebbe un vero singolo: dopo “un educato diverbio” nel quale Springsteen, nel pieno rispetto delle dinamiche artista-produttore, dice a Landau di scriverselo da solo, il Boss tira fuori ‘Dancing In The Dark’, singolo nato dal bisogno d’evasione dagli studi di registrazione e che apre a nuovi fraintendimenti: quando le televisioni del mondo trasmettono il videoclip diretto da Brian De Palma, che unisce immagini della data di apertura del Born in the U.S.A. Tour nel Minnesota a quelle di una doppia esecuzione della canzone, allestita nella stessa occasione appositamente per produrre il video, tutti pensano che la ragazza invitata da Springsteen a salire sul palco sia una fortunata fan, guarda caso bellissima. Ma è un trucco di De Palma, maestro dell’horror che coi finali a sorpresa ci sa fare: la ragazza del video chiamata sul palco non è una fortunata fan (lo pensava anche Springsteen, all’oscuro della sua reale identità per scelta registica), bensì l’attrice emergente Courteney Cox. Per i meno avvezzi ai concerti del Boss, il rito di ‘Dancing In The Dark’ ancora si compie oggi, ma con fan reali.

‘Born in the U.S.A.’ è un disco, ma anche il normale crocevia di accadimenti personali che includono l’addio alla E-Street Band di Steve Van Zandt, con Springsteen sin dall’inizio e di nuovo con lui dal 1995; con Nils Lofgren al suo posto arriva pure Patti Scialfa, corista e più tardi moglie di Springsteen. Quanto al tour: 156 date in quattro continenti da marzo 1984 a ottobre 1985, per circa 90 milioni di dollari di incasso, con il disco nella top 10 degli album di Billboard per tutto il viaggio intorno al mondo. I concerti, da quattro ore a notte, toccarono l’Europa ma non la Svizzera. Il posto più vicino a noi fu San Siro, Milano, anche se di ciò si parlerà più approfonditamente il 21 giugno del prossimo anno. Comunque...

La fine del mondo

“Su disco è un grande rocker, ma anche monocorde e ripetitivo, dal vivo è un vulcano di energia rock capace di galvanizzare per quatto ore uno stadio gremito di giovani”. Oggi, per quel “monocorde e ripetitivo”, Gino Castaldo di Repubblica sarebbe giustiziato sui social, ma la sua fu una cronaca accorata. Così invece ricorda San Siro il Boss, italiano per parte di mamma Adele Zerilli da Vico Equense, Napoli, morta nel gennaio scorso: “Di fronte alla sconcertante isteria del pubblico, mi resi conto che in Italia quella era la norma: donne che mandavano baci e scoppiavano in lacrime, uomini che scoppiavano in lacrime e mandavano baci, tutti che ci giuravano amore eterno battendosi il cuore con il pugno”. E quando partì ‘Born in the U.S.A.’, “la fine del mondo sembrava vicina: lo stadio vibrava e oscillava, noi suonavamo come se ne andasse della nostra vita”.


Venerdì 21 giugno 1985