Perché mai dovremmo vedere, su Netflix, i sei episodi di ‘Un uomo vero’, con Jeff Daniels nei panni di una caricatura migliorata di Donald Trump?
Cosa ci attira negli uomini bianchi ricchi e di potere? Cosa fa sì che una storia che parla di un facoltoso uomo d’affari georgiano, o scozzese, se è per questo, attiri la nostra attenzione e ci sembri ricca di pathos, profonda, simbolo di qualcosa di più grande, anche quando il racconto stesso fa di tutto per mettere in primo piano l’avidità e il cinismo di quel genere di ambienti? Le domande che solleva ‘Un uomo vero’ (Netflix) sono le stesse che sollevava ‘Succession’ e che, prima ancora, sollevavano soap-opera come ‘Dallas’ e ‘Beautiful’. Perché le casalinghe romane, madrilene, colombiane, negli anni novanta si appassionavano agli intrecci amorosi di una famiglia americana che ha fatto i soldi nella moda? Perché studenti iscritti a Science Po che vivono magari in chambres de bonnes senza riscaldamento, oggi, si interessano alla depressione dei figli di Logan Roy? E perché, ancora, vedere i sei episodi di ‘Un uomo vero’, tratto dal romanzo omonimo di Tom Wolf, con Jeff Daniels nei panni di una caricatura migliorata di Donald Trump?
Charlie Crocker è un imprenditore di Atlanta indebitato con le banche per una cifra talmente ridicola - ottocento milioni - che a un certo punto le banche decidono di recuperare il possibile, compreso l’aereo privato e le aziende. Crocker ha speso i soldi per ragioni personali, in feste sfarzose e in una tenuta dove alleva quaglie per poi cacciarle. Ha una moglie giovane e bella (ma anche intelligente) e forse il simbolo più peculiare del potere di Crocker è rappresentato dalle maniglie che ha installato nella propria casa per poter soddisfare, in piedi, ogni loro desiderio di coppia. Ma non è un totale egoista, non del tutto almeno. Quando la sua segretaria, afroamericana, ha un problema personale, lui mostra un lato umano insospettabile e decide di aiutarla anche se non è proprio il momento più opportuno.
La vendetta delle banche è motivata dal livore personale di Raymond Peepgrass che, avendo lavorato con Crocker, si è sentito svalutato, umiliato, al punto da volerlo rovinare. Peepgrass è un nerd ricattato da una donna dell’est-Europa che ha accidentalmente messo incinta, costretto a vivere in un monolocale squallido dalle mura sottili. Non è l’unico ad avercela con Crocker: ad aiutarlo c’è il suo superiore, Harry Zale, che vede la cosa più come un conflitto tra maschi alpha e si chiede se, in una lotta fisica, avrebbe la meglio su Crocker (con un passato da atleta nel football collegiale).
Rispetto al suo modello di riferimento piuttosto esplicito, il Logan Roy di ‘Succession’, Charlie Crocker sembra dotato di un’anima. Sono i suoi rivali, piuttosto, a sembrare peggiori. Peepgrass a un certo punto confessa il senso di ogni invidia: l’impossibilità di essere come il proprio rivale, per questo sta provando a impossessarsi del grattacielo di Crocker – simbolo fallico della propria presenza sul pianeta, il più alto di Atlanta – e per questo sta provando a sedurre l’ex-moglie di Crocker. Ma che significa essere come questo tipo di personaggi? Anzitutto essere potenti. Che nel sistema capitalistico significa anche: essere veramente liberi. In questo senso il titolo originale della serie (‘A man in full’) è più chiaro: non si parla di soldi ma di poter essere pienamente se stessi. Solo gli uomini ricchi e potenti, sembra dirci Regina King, la regista, possono essere davvero se stessi. Quindi, queste storie ci attirano perché offrono una via di uscita, seppur sul piano immaginario, dalla nostra frustrazione quotidiana.
‘Un uomo vero’, in realtà, racconta anche un’altra storia. Quella di Conrad, dipendente di uno dei magazzini di Crocker e sposato con la segretaria di Crocker, Jill, prossima al parto del loro primo figlio. Durante un banale litigio stradale, Conrad viene maltrattato da un poliziotto e reagisce colpendolo con un pugno. Finisce in prigione e Crocker manda il suo avvocato – in teoria impegnato a non farlo andare in bancarotta – in soccorso. Crocker consola Jill dicendole che andrà tutto bene, che i suoi soldi tireranno Conrad fuori di prigione. Nonostante ciò, un giudice molto severo spedisce Conrad in un carcere di massima sicurezza e, da lì, in un vortice sempre più drammatico e opprimente. Conrad, Jill e l’avvocato di Crocker sono tutti e tre afroamericani. Regina King, come regista è stata candidata ai Golden Globes per ‘Quella notte a Miami…’, film incentrato sull’incontro tra il cantante Sam Cooke, il giocatore di football Jim Brown e Malcom X, tutti nella stessa stanza per celebrare Muhammad Ali dopo la sua vittoria con Sonny Liston. Da attrice, Regina King ha vinto un Oscar per il suo ruolo in ‘Se la strada potesse parlare’, film drammatico che narra dell’ingiusta carcerazione di un afroamericano falsamente accusato di stupro. Non è difficile immaginare che anche in ‘Un uomo vero’ la sottotrama razziale, pur secondaria, abbia interessato King quanto quella principale della gara tra uomini bianchi a chi fa pipì più lontano.
Unendo le due trame ne viene fuori una serie dal significato meno banale di quello che la critica americana ha voluto riconoscere alla serie, definendola una satira malriuscita in cerca dell’attenzione del pubblico deluso dal fatto che ‘Succession’ è finita. Per quanto magari non all’altezza del libro di Tom Wolfe, ‘Un Uomo vero’ cerca quantomeno di mostrare l’ingiustizia del sistema americano offrendo come contraltare all’onnipotenza di chi è in cima alla piramide l’impotenza di chi è in mezzo, neanche alla base della stessa. In fin dei conti anche il confronto con ‘Succession’ è ingiusto: ‘Un uomo vero’ sono solo sei episodi e, per quello che vuole raccontare, bastano e avanzano. Regina King non voleva rivaleggiare con il Re Lear di Shakespeare, quanto riprodurre, in piccolo il conflitto americano per eccellenza: quello tra uomini indebitati con le banche come fossero dei piccoli stati nazionali, destinati a cadere sempre in piedi, e uomini che non possono neanche difendersi mentre vengono sbattuti violentemente contro una macchina, anche a rischio di venire uccisi. Perché per ogni Donald Trump, chissà quanti magazzinieri ingiustamente incarcerati ci sono.