laR+ L'intervista

Un ponte tra Svizzera ed Egitto più vicino di quanto si pensi

Il film ‘Retour en Alexandrie’ di Tamer Ruggli, in sala dal 15 maggio, ci riporta a quell’umanità che ci connette al mondo arabo e non solo

Dal 15 maggio nelle sale
13 maggio 2024
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Sembra distante, lontana e incomprensibile. È facile pensare che la cultura araba sia di fatto un mondo a parte e associabile, erroneamente, solo a questioni politiche, belliche o religiose, aspetti che sottolineano la fatica che ancora perdura nel riuscire ad accettare il diritto all’esistenza di diversi modi di pensare, dire e vivere. Ci si dimentica della cultura, della cucina, dell’ospitalità e cordialità di un popolo giudicato in base alla sua peggior minoranza estremista, ma è e deve essere possibile rispecchiarsi con l’umanità, sentimento indefinito che, per fortuna, volenti o nolenti, tutti ci accomuna, dai saggi agli strampalati.

‘Retour en Alexandrie’, primo lungometraggio di Tamer Ruggli, riesce allo stesso modo a riavvicinare mondi meno lontani di quanto sembra, grazie a una storia profonda, tra psicologia e ricordi, traumi e nostalgia, amarezze e sorrisi. In un cast che include Fanny Ardant, protagonista è l’ormai consolidata Nadine Labaki (la si ricorda in ‘Cafarnao’, candidato all’Oscar nel 2018), che interpreta magnificamente Sue, una donna scappata in gioventù dall’Egitto, costretta poi a tornare a casa per affrontare i demoni legati alla madre e alla propria infanzia. In questa rara e particolare occasione d’incontro tra Svizzera ed Egitto, abbiamo incontrato il regista del film, che esce nelle sale il 15 maggio.

Tamer Ruggli, un vicenda potente e stratificata: come è nata e da dove viene l’urgenza di raccontarla?

È una storia personale, ispirata dai racconti di mia madre e dalla sua difficile relazione con mia nonna, che veniva dall’aristocrazia egiziana. Sono cresciuto con queste storie e ho molti ricordi di quando ero piccolo e andavo a trovare la mia famiglia a Il Cairo e ad Alessandria, quindi il film è un ibrido semi-autobiografico, tra i ricordi e la storia personale. L’idea è nata quando mia nonna purtroppo ci lasciò: c’erano tante cose che mia madre non era riuscita a comunicarle prima che questo accadesse, quindi è stato anche un modo per elaborare il lutto e riuscire a lasciarsi tutto alle spalle, a sbarazzarsi finalmente di quella grande sofferenza.

Come è nata la collaborazione con Nadine Labaki e qual è il motivo della scelta di professione della protagonista che interpreta, ovvero la psicologa?

Per me Nadine appartiene a un gruppo di attori e autori che ha dato una nuova vita al cinema arabo, un tipo di cinema in cui mi posso identificare. Ricordo ad esempio il suo film ‘Caramel’, che riflette e riesce a raccontare il mondo arabo senza per forza concentrarsi su politica, povertà e religione, piuttosto entrando in una dimensione più umana. È un’attrice e una persona che apprezzo moltissimo, mi interessava certo per la sua estetica ma non di meno per il suo carattere. Fortunatamente sono riuscito a conoscerla tre anni fa a Beirut, grazie a una conoscenza comune, quindi ho scritto la sceneggiatura già pensando a lei come protagonista.

Girare in Egitto è stata davvero un’esperienza speciale; gli attori egiziani sono molto conosciuti nel mondo arabo ed esistono varie scuole di recitazione, che vanno dal teatro alla telenovela e chiaramente al cinema, quindi è stato molto interessante trovare un punto di equilibrio tra lo stile recitativo di Nadine, che è molto tenuto, reale, e quello ad esempio di Fanny (Fairouz, la madre, ndr), più teatrale e dunque un po’ più affettato. La professione della protagonista strizza dunque l’occhio a mia madre, che ha studiato psicologia in Egitto senza tuttavia praticare, per fortuna per gli ipotetici pazienti. In più, ho pensato che chi dà consigli e sembra forte e stabile, forse in realtà non sta bene, o comunque non per forza sta meglio degli altri, perché tutti abbiamo dentro di noi traumi passati.

Il film mostra un mondo di persone dure, eppure non mancano i buoni samaritani: che tipo di realtà vuole riflettere?

In Egitto abbiamo sentimenti molto forti, molto esuberanti; ad esempio mi ricordo momenti dell’infanzia con le mie zie, che mi facevano paura ma erano anche molto tenere, una gentilezza che si nasconde dietro a un approccio cattivo e che pare egoista, ma ho una bella opinione di queste donne e di queste persone. Tutte loro hanno molto sofferto, talvolta costrette a una vita tradizionale e in qualche modo pilotata. Il mondo che ci circonda è quindi, per prima cosa, fatto di esseri umani, ci si perde nella pluralità degli individui, ma nelle cicatrici dell’infanzia siamo tutti più vicini.

Nell’inquadratura saltano all’occhio le luci splendenti: esiste un motivo dietro a questa scelta visiva?

Io e il direttore della fotografia Thomas Hardmeier abbiamo parlato molto del look visivo, volevamo un effetto nostalgia e lui ha scelto delle ottiche particolari, che danno una certa diffusione della luce, come un velo di polvere, oltre che un po’ di rumore per rendere l’immagine più nostalgica e vintage. Ci siamo ispirati molto anche alle pitture, come si vede dagli arredamenti nel film, per esempio Goya, Caravaggio, con quei bellissimi chiaroscuri, illuminati con la flebile luce di candela.

Qual è o quali sono i messaggi che vuole veicolare con quest’opera?

Credo che l’amore abbia diverse facce e sfaccettature. È la storia di un rendez-vous mancato, si vede nel film come esista molto amore tra i personaggi, ma essi si passano accanto senza trovarsi, non trovando un linguaggio comune. Alla fine, per me, la storia vuole raccontare fino a che punto la nostra infanzia ci marca e ci ostacola nel diventare le persone che siamo o che vogliamo essere. L’infanzia è una cosa che mi ha molto marcato, ma sicuramente anche nutrito, ispirato per questo racconto personale. Non a caso recitano pure i miei familiari, come nella scena dell’incontro a tavola dei parenti, in cui cercavo qualcosa di familiare, e quindi ho inserito mia madre e le mie zie come personaggi.