A Locarno, all’interno de ‘L’immagine e la parola’, abbiamo incontrato la regista francese, consacrata dai film ‘Nous’ e ‘Saint-Omer’
Si è appena conclusa la rassegna ‘L’immagine e la parola’, ritrovo fisso pre-festival che segna l’inizio della Spring Academy a Locarno, quest’anno con il titolo ‘Passo a due’, durante la quale sei giovani registi, scelti tramite bando globale, collaboreranno con degli attori per realizzare dei cortometraggi in un’esperienza unica, della durata di dieci giorni. Per i progetti di quest’anno, la guida dei giovani cineasti sarà affidata alla regista francese Alice Diop, che ha dato prova di capacità sia attraverso il documentario che attraverso il cinema di finzione, riscuotendo un discreto successo ai grandi festival internazionali. L’abbiamo incontrata al cinema Rialto, per approfondire il suo peculiare approccio alla settima arte.
Alice Diop si contraddistingue dalle scelte coraggiose nei suoi film, ad esempio in ‘Saint-Omer’, dove non vediamo la risoluzione finale del processo, proprio come nella Medea di Ovidio, che è anche citata direttamente. Qual è dunque il motivo della scelta di questo titolo? Esiste ed è importante il legame tra la città e la storia narrata?
Sì, è molto importante perché innanzitutto il titolo crea una sorta di richiamo, di gioco di parole… Insomma, ha una moltitudine di risonanze sonore: in francese, Saint-Omer richiama i santi, l’acqua, la madre e il mare, dunque esiste in questa scelta di parole una dimensione quasi psicanalitica. Anche la città, in effetti, è il luogo d’origine della vicenda e dove si è svolto questo vero processo, perché il film è ispirato a fatti reali e a un’esperienza personale. Ho assistito io stessa al processo di una donna per infanticidio, caso che mi ha ampiamente colpito e ispirato. C’era questa piccola città della Francia, questa donna di colore accusata da un popolo e una giuria che probabilmente non si era mai confrontata con una persona come lei, con la sua psiche messa a nudo di fronte a tutti loro, come spettatori spietati che erano venuti a vederla. La sua personalità rinnova il modo in cui la guardiamo e consideriamo, poi ognuno interpreta il film come vuole e io sono aperta a tutte le interpretazioni. E non solo a una, anche perché è un film che lascia molto spazio al pubblico.
Nel documentario ‘Nous’, un moderno ‘À propos de Nice’, viene evidenziata la disparità sociale e sottolineata, oltre agli altri aspetti, la difficoltà d’integrazione degli immigrati. Tutto questo riflette un’esperienza personale? Esiste la possibilità che, effettivamente, sia possibile diventare un “noi”?
È abbastanza normale pensare che, se si parla delle difficoltà di integrazione degli stranieri in un Paese, è perché chi ne parla ha avuto quelle stesse difficoltà, ma credo sia un po’ scorretto mettere la propria storia personale direttamente sul palco, quindi non riflette un’esperienza personale, anzi, è proprio per questo che ho fatto il film. Noi siamo legati, perché il “noi” è allo stesso tempo un’utopia e un modo per riunire in un film mondi sociali differenti, che vivono nello stesso territorio, nella stessa società, ignorandosi a vicenda. Si tratta proprio della domanda centrale: possiamo essere un noi? Possiamo far parte della società quando veniamo da un mondo così diverso? Una domanda e anche una dichiarazione: “io sono qui”, “io sono francese”, sono nata in Francia e, qualsiasi cosa pensi il Front National, la storia della mia vita estende la storia francese e la completa.
La storia è qualcosa che è in movimento, qualcosa che si fa e che si rinnova, e il nostro vissuto si aggiunge alla memoria: la storia di mio padre, la storia dell’immigrazione e così via, fanno parte della storia francese, qualunque sia lo status giuridico e qualunque cosa venga detta da terzi. ‘Nous’ è quindi un progetto, un’utopia, una domanda, una provocazione e una forma di resistenza politica alla violenza fascista, una questione spinosa anche nella vicina Italia.
Il suo stile filmico è caratterizzato da tempi distesi, sovente espressi tramite primi piani o quadri fissi, una messa in scena precisa e delicata. Qual è il suo approccio alla regia?
In effetti, quando si tratta di dirigere, non ho un’impostazione a priori, perché cerco di adattarmi sempre a quello che devo dire e al film che sto facendo. Non vedo differenza tra fiction e documentario, ogni film deve trovare la sua forma, quella giusta, per dire ciò che deve essere detto. C’è indubbiamente uno stile che può emergere, ma io non ci penso molto, lavoro passo dopo passo e film per film, cercando l’inquadratura che la narrazione necessita in quel preciso momento. Spetta ad altri, credo, come a critici o a giornalisti, sviscerare questi legami. Per me sarebbe difficile farlo.
Lei ha raccontato storie di sconosciuti per diversi anni, dando dignità a personaggi che non vengono notati dalla massa, che non riescono a integrarsi, particolarmente nelle zone delle banlieue. Si può dire che la sua visione sia pessimistica, in tal senso?
In realtà, ogni film mi porta in luoghi molto diversi e il prossimo, del quale sono all’inizio della scrittura, potrebbe essere più storico. Politicamente, e riguardo al migliorare della vita, sento una certa negatività e in effetti non mi piace affatto il termine ‘integrazione’, perché implica prima di tutto che sei fuori, che sei straniero, nonostante io sia nata in Francia e abbia 44 anni, quindi come posso essere ‘integrata’ in una società cui appartengo pienamente per nascita? Il termine ‘straniera’ rivela che sono percepita come un gruppo esogeno ed è questo il problema, perché si pensa che, in quanto donna nera, io possa essere solo esogena all’Europa. Mi ritengo piuttosto critica nei confronti della società francese che, per me, sta andando alla deriva da un punto di vista morale, intellettuale, politico e culturale. È molto preoccupante, tuttavia, affermare di essere francese, è una forma di resistenza a questa forma moderna di fascismo che ci sta infettando, per ricordare che il Paese appartiene a tutti, a ‘noi’.