Sanremo, ‘Manoglia’, le canzoni che avrebbe scritto, quelle che non ci sono, che esisteranno ed esistono già: sabato 2 marzo al Lac
È album di “tormentoni autunnali” (parole sue), applicabili anche all’inverno e a una quasi primavera. ‘Manoglia’ è il titolo del disco e ‘Manoglia Tour’ quello dei concerti che arrivano fino al Lac stasera alle 20.30, per proseguire almeno sino al 23 novembre, Forum di Assago, prevendite aperte da ieri. Insieme ai grandi successi, Davide Van De Sfroos porta in Ticino (“Fai come se fossi a casa tua”) cose nuove e intimissime tra il folk e il manouche, tra l’acustico e lo psichedelico acustico, strumenti ‘world’ e storie (non solo) ‘local’. Ma risparmiamo i caratteri...
Dopo la sbornia di elettronica a Sanremo, rimettersi nelle orecchie ‘Manoglia’, più che un salto nel passato pare avanguardia…
Ascolto tanta musica elettronica, soprattutto i suoni distanti dai miei, altrimenti che noia! (ride, ndr). Però è anche vero che a furia di campionamenti e attrezzature varie ci stanno comprimendo in un mondo sempre più digitale. Noi che siamo ancora persone un po’ analogiche, che amiamo ancora il sound della taverna, del locale, del prato, siamo un po’ dei ribelli che si ostinano a vivere qualcosa che pare non volersi esaurire. Il folk, benché sembri non essere mai di moda, nemmeno si estingue: laddove ci sarà una piazza, una festa, ci saranno sempre fisarmoniche, violini, banjo. Una volta, a un mio concerto, c’era un anziano motociclista che indossava una maglietta con scritto in inglese “I vecchi sono i nuovi giovani”. Mi ha fatto sorridere e riflettere: Dylan, quando era ancora abbastanza giovane, scriveva “oh com’ero vecchio allora, sono molto più giovane adesso” (‘My Back Pages’, 1964, ndr). A volte mantenere vivo un modo di raccontare le cose che arriva da lontano è anche una forma di rispetto per tutto ciò che ci ha portati fin qui.
A Sanremo 2011 Davide Van De Sfroos cantò mezzo in italiano e mezzo in laghée e nessuno disse “ma non capisco quello che dice”, nessuno si chiese come mai ci fosse in gara uno che cantava “in un’altra lingua”…
A Sanremo ci hanno voluto proprio per il dialetto. Era un paio di anni che il Festival lo aveva sdoganato, fino ad allora esisteva solo il napoletano, la lingua che quest’anno ha scatenato queste assurde polemiche. Perché il napoletano è quello ci ha resi famosi nel mondo, da ‘O sole mio’ a ‘Funiculì funiculà’ a ‘Tu vuo’ fa’ l’americano’, cose che gli emigranti hanno portato in America, in Australia, nel mondo e tutti sono sempre stati ben contenti di ascoltare. Una lingua è qualcosa che appartiene a una terra: se cominciamo a vergognarcene, allora vuol dire che abbiamo dei problemi molto seri. E poi io non vorrei mai vivere in una nazione che da domani iniziasse a parlare come un navigatore satellitare, senza più un dialetto, una sfumatura. Vale anche per il Ticino e la Svizzera.
Geolier? Il ragazzo può piacerti o non piacerti, il genere può interessare oppure no, ma non puoi attaccare il dialetto napoletano, che è più antico delle nostre polemiche. Credo che se sentissi un irlandese che canta in gaelico o un ispanico cantare in basco sarei favorevolmente colpito, piuttosto che turbato o indispettito. Ma credo che questa ‘notiziona’ non durerà più di tanto.
A Sanremo 2011 ‘Yanez’ arrivò quarta e nessuno tirò in ballo la camorra…
I bookmaker inglesi nemmeno ci avevano considerati. Col fatto di essere arrivati così in alto, l’Italia si è favorevolmente interessata a noi e la gente me l’ha dimostrato anche a Roma e a Napoli. Ma nel 2011 regnava ancora un buon clima, non era ancora il momento delle accuse contro tutto e tutti, quel salire in cattedra a giudicare i vivi e i morti, una cosa abbastanza patetica, sempre più viva e virale e che fa un po’ passare la voglia di fare il mestiere che facciamo. Per fortuna la musica è altro.
Di ‘Manoglia’ hai detto che poteva anche non esserci. Pensando ai tuoi amici Vad Vuc, pare un ‘Album Postumo’ pubblicato in anticipo…
Sì, ho aperto io gli archivi e li ho trasformati in un disco acustico, così queste canzoni non saranno mai il classico riempitivo di un album celebrativo. Le abbiamo vissute e cantate, le stiamo portando nei concerti arricchite di molti altri strumenti, e in una forma più strutturata.
“Gonfia le montagne con lo sforzo del poeta / smaschera stagioni per il sangue di una riga”, canti in ‘La canzone che non c’è’…
È lo sforzo dello scrittore nell’andare a cercare qualcosa che non c’è ma che potrebbe esserci domani, tra un anno, tra un’ora o due. La stessa cosa vale per il pittore, il fotografo, il regista. L’artista deve inseguire quella cosa che ancora non c’è.
A questo proposito: la canzone che Davide Van De Sfroos avrebbe tanto voluto scrivere?
Nel corso della vita ne ho trovate veramente tante. Al di là dell’omonima canzone, in ‘Crêuza de mä’ di Fabrizio De André mi ha sempre toccato ‘D’ä mæ riva’. ‘Il cuoco di Salò’ di De Gregori è un altro esempio di scrittura libera ed emotiva, che permette di guardare le cose da strane angolazioni. Su ‘Comfortably Numb’ dei Pink Floyd ancora oggi, al millesimo ascolto, provo le stesse sensazioni. Ma potrei dire ‘Leggero’ di Ligabue, ‘Com’è profondo il mare’ di Lucio Dalla, e poi i Waterboys, i Pogues. Abbiamo appena perso Shane MacGowen, temperamento punk e alcolico ma scrittore profondissimo. E di Tom Waits potremmo saccheggiare mille dischi...
E invece: le canzoni che Davide Van De Sfroos è felice di avere scritto?
Alcune più leggere, che sono servite a far ballare bambini e famiglie, come ‘La curiera’, ‘La balera’. Certo, poi ‘Akuaduulza’, ‘Infermiera’, ‘Il reduce’, ‘Il minatore di Frontale’, ‘Sciur capitan’ sono canzoni che entrano più in profondità nelle vite, nelle cose accadute. Mi è piaciuto anche analizzare i lavori della gente, come ne ‘Il mitico Thor’ e ‘Grand Hotel’, canzoni che una volta riascoltate ti danno l’idea di aver captato la cosa giusta nel momento giusto.
E la tua, di canzone che non c’è?
Sono fantasmi che vanno e vengono, e ho imparato a prendere tempo. Ho visioni che trasformo in paginate di testo, poi arriva la canzone, meglio tirar fuori prima il materiale grezzo e poi lavorarlo. Non so fino a che punto avrei voglia di cimentarmi con le cose superattuali, che spesso sono specchio di un già successo. Amo recuperare ciò che rischia di andare perduto per sempre, personaggi, situazioni, luoghi raccontati dagli ultimi anziani frequentati, le cose più fragili dal punto di vista della permanenza nella memoria.
Jovanotti scrisse ‘La gente della notte’, la tua ‘Gente dell’alba’ su ‘Manoglia’ è ‘Ankainkoo’, così reale che oltre all’orario si percepisce pure la temperatura: quanto dista dalla canzone che non c’era?
‘Ankainkoo’ è una canzone-non canzone, esiste come tale essendo scritta in metrica, ma è fatta di nulla se non del suo testo. È stata scritta al mattino alle 6 e mezza mentre accompagnavo i ragazzi a scuola: ho osservato le giornate, e nella seconda strofa ho provato a lavorare di fantasia per fare di quelle giornate qualcosa di più magico. È molto fitta, più vicina a una pagina di libro. Quando l’ho ascoltata solo con il pianoforte e una fisarmonica alla fine, mi son detto: “Non metto altro, lascio che questa cosa scorra…’.