Un'iscrizione apposta sulla facciata della casa ricorda il soggiorno a più riprese del grande compositore italiano nel periodo dei suoi debutti milanesi
“Sottratta al piccone demolitore in virtù del Decreto del Consiglio di Stato del Canton Ticino che ha intelligentemente accolto le istanze dell’Istituto di Studi Pucciniani, dell’Associazione Musica del Mendrisiotto, dell’Associazione Ricerche Musicali nella Svizzera italiana e d’innumerevoli cittadini, questa casa è affidata alle cure delle autorità e della popolazione di Vacallo atteso che, lungo taluni periodi degli anni 1889-92, fu dimora di Giacomo Puccini venuto a soggiornarvi, ispirarsi e comporre parti essenziali di Manon Lescaut, 1985”.
Questo recita l’iscrizione apposta sulla facciata della casa in cui Puccini soggiornò a Vacallo a più riprese nel periodo dei suoi debutti milanesi. Già aveva alle spalle Le Villi quando, nell’estate del 1888, faceva la sua apparizione a Pizzamiglio sopra Chiasso. Il 21 giugno di quell’anno infatti da quella località il fratello minore Michele inviava allo zio Nicolao Cerù “Tanti saluti da Giacomo”. Era il periodo in cui il compositore si preparava all’andata in scena dell’Elgar (21 aprile 1889), la più sfortunata e la meno significativa delle sue opere. Nel 1889 Puccini tornò nel Ticino, questa volta accompagnato da Elvira (la quale sarebbe poi diventata sua consorte) e dal figlioletto Antonio. Il soggiorno fu replicato l’anno successivo ai primi di luglio nella “Casa Camponovo”, dove si trattenne almeno due mesi. Da alcune settimane egli aveva iniziato il lavoro intorno alla Manon Lescaut, opera la cui elaborazione fu portata avanti a più riprese sullo sfondo dei soggiorni ticinesi. Se nel 1891 Puccini non venne nel Ticino, vi tornò nell’estate del 1892, trattenendovisi per vari mesi. Il 16 luglio annunciava a Cesira Ferrani, la futura protagonista della prima rappresentazione di Manon al Teatro Regio di Torino: “Ancor io domani parto per Vacallo (Canton Ticino)”.
Probabilmente proprio nel Ticino Puccini portò a termine la composizione dell’opera, come lascerebbe intendere quanto scriveva in una lettera spedita al collega Alfredo Soffredini da Vacallo: “Io sto bene e sono agli sgocciolini, eppoi laus deo”. A Vacallo, oltre ai fatti accertati dei soggiorni pucciniani, si ricordano particolari leggendari, come la composizione di una marcia richiesta al celebre musicista dal locale corpo bandistico e, a detta di alcuni, addirittura diretta da Puccini stesso (episodio improbabile considerando che in vita sua il compositore non accettò mai di dirigere nemmeno un’orchestra).
Orbene questa trama di fatti apparentemente minimi dissimula la nascita del primo capolavoro pucciniano, un capolavoro in parte ancora controverso. Ciò che si è sempre rimproverato a Manon sono le inverosimiglianze, i bruschi salti da una situazione all’altra, evidenziati nell’abitudine a paragonarla all’omonimo capolavoro di Massenet. In realtà il fatto che tutto il secondo atto dell’opera di Massenet, cioè la rappresentazione dell’idillio della protagonista e De Greux, sia soppresso in Puccini corrisponde a una concezione opposta, all’intenzione di mettere in scena l’amore non come consolazione bensì come un fatto disperato. Lo testimonia il travaglio del libretto. Mentre nel caso di Elgar e de Le Villi il musicista si era sottomesso a libretti imposti, per Manon Lescaut la sua prima preoccupazione (e qui sta il salto di qualità) fu riservata alla stesura del libretto, all’organizzazione della sua drammaturgia. La prima redazione di Marco Praga e Domenico Oliva produsse un risultato insufficiente, così come il rimaneggiamento affidato a Leoncavallo che in quel momento soggiornava a Vacallo in una casa vicina. La premessa letteraria al capolavoro si ebbe nel 1891 con l’intervento di Luigi Illica, il quale avrebbe inaugurato un sodalizio con Puccini a più riprese replicato, sulla base appunto della messa a fuoco del mondo poetico pucciniano che ormai si lascia alle spalle definitivamente l’amore romantico come simbolo morale, attribuendogli un valore a sé stante, sciolto da imperativi etici e vissuto come realtà fatale. Manon Lescaut, soggetto di origine settecentesca facilmente disponibile a rappresentazioni risolte nella cornice leziosa della ricostruzione d’epoca, presentando l’amore come cosa dannata approda alla concezione di un’opera assolutamente tragica, secondo Fedele D’Amico non inferiore a Tosca e a Madame Butterfly.
Già se ne era d’altronde reso conto George Bernard Shaw nel 1894 durante la stagione d’opera italiana a Londra, quando la nuova opera di Puccini fu presentata contemporaneamente a Falstaff, a Pagliacci e a Cavalleria rusticana. Il celebre scrittore rilevò immediatamente le novità sostanziali di Manon rispetto a quelle apparenti delle altre opere veriste, impegnate semplicemente a razionalizzare i dati della tradizione melodrammatica. A Shaw non sfuggì la varietà impressionante del senso armonico di Puccini e, fatto nuovissimo per l’Italia, la costruzione sinfonica nel senso dell’eredità wagneriana di strutture di temi organizzati secondo una propria logica. Il mondo sentimentale di Puccini in quest’opera appariva turbato, mosso, ambiguo e ormai deciso a lasciarsi alle spalle le certezze legate al profilo dei temi squadrati ancora prediletti dai veristi. Mettendo in campo il tumulto delle passioni, assecondando ogni loro pulsione, Puccini in Manon già si inoltrava verso la psicologia dell’uomo smarrito di fronte alla sua solitudine che lo apparenta ai vertici dell’arte del ventesimo secolo. Il ricordo di Vacallo non è quindi piccola cosa come testimonianza di una rivelazione estetica decisiva per il destino della musica europea.
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Giacomo Puccini nel 1908