‘L’alfabeto delle emozioni’, una non pericolosa roulette russa della narrazione con lo scrittore e drammaturgo, al Teatro di Locarno l'1 e 2 dicembre
Ventuno lettere, quelle dell’alfabeto, per ventuno emozioni a esse collegate, quelle che il protagonista racconta. I tempi dello spettacolo permettono di estrarne a sorte al massimo sette, le altre restano fuori, buone per la replica successiva. Del suo ‘Alfabeto delle emozioni’, Stefano Massini ha già fatto sapere che qualcuno del pubblico è tornato la sera dopo per controllare che la casualità fosse reale e che non si trattasse dello stesso spettacolo della sera prima. Lo scrittore e drammaturgo sarà al Teatro di Locarno venerdì 1 e sabato 2 dicembre, lo scettico potrà controllare da sé.
Unico italiano a vincere un Tony Award (l’Oscar del teatro americano) per la sua ‘Lehman Trilogy’ – pluripremiato romanzo sulla famiglia Lehman adattato per il palcoscenico – Massini è presenza fissa di ‘Piazzapulita’, su La7, nelle puntuali incursioni che hanno da poco toccato quota duecento, a uso e consumo delle nostre coscienze. In tempi di lockdown, il pubblico televisivo lo ha anche visto ricompattare il mondo dello spettacolo in ‘Ricomincio da Raitre’, presentandone (e ricordandone) le eccellenze. E quand’anche non fosse lui di persona a raccontare le emozioni, abbiamo ascoltato la sua voce nei testi di molti spettacoli ospitati dai teatri ticinesi. Lo incontriamo a poche ore da quello di Locarno.
Stefano Massini, ha definito il suo spettacolo ‘un meccanismo diabolico’: dove, di preciso, interviene il diavolo?
‘L’alfabeto delle emozioni’ vede in ogni replica solo un terzo di quel che è stato pensato e scritto, ovvero 7 lettere su 21. Il sorteggio genera una miniatura del meccanismo delle emozioni umane, che non ci consentono di sapere se fra un attimo saremo gioiosi, tristi o impauriti, non potendo noi avere il polso dei nostri meccanismi emotivi interiori. La diabolicità sta nel fatto che a ogni lettera corrisponde un’emozione – a come ansia, c come coraggio, d come dolore e via dicendo – e io non so mai quale sorteggerò, e in quale ordine. Si riproduce così sulla scena la condizione dell’essere umano, sempre sul filo delle proprie emozioni e in grado di scoprirle soltanto nel momento in cui le vive. Cercavo un modo per portare in scena questo meccanismo e un modo diverso da questo sarebbe risultato poco credibile, perché avrei corso il rischio di raccontare le emozioni con un copione precedentemente scritto e ‘blindato’. E invece sono in bilico sul filo, esattamente come le persone in platea.
Mi è capitato di scrivere di lei attraverso le parole di Ottavia Piccolo, che ha portato in scena Anna Politkovskaja, Elda Pucci e la Hannah Arendt di ‘Eichmann. Dove inizia la notte’, tutti spettacoli da lei scritti, emozioni ‘via terzi’…
Ho sempre usato questo meccanismo, ho sempre raccontato le mie emozioni attraverso degli alter ego, tramite i personaggi e le loro storie. Ho sempre creduto nell’efficacia dei meccanismi narrativi, le storie raccontate sono sempre molto forti perché diventano inevitabilmente apologhi e in qualche modo ti ci puoi ritrovare. E pur restando altro da te, diventano disponibili a diventare simbolo o mezzo grazie al quale rispecchiarsi ed esprimersi. In questo caso lo faccio con uno spettacolo che è un ventaglio di possibilità narrative quasi infinito che include l’Antica Grecia, i gangster americani degli anni 20, i sovrani africani del 1’300 o storie profondamente moderne come quelle che hanno a che fare con la Seconda guerra mondiale o con i regimi vissuti in Europa. ‘L’alfabeto delle emozioni’ mi consente di accostare l’inaccostabile, è il potere del sorteggio.
Hanno dato diverse definizioni di lei. ‘Divulgatore’, una tra le più diffuse, pare quella che lei condivide più di altre.
Da un lato sì, nel senso che ‘divulgatore’ è definizione che sottende lo stare di là dei generi e dunque la definizione mi corrisponde, ho sempre odiato il voler definire un genere preciso. Trovo invece che la mia radice antica sia quella di credere nelle storie, nelle parole, al di là dei modi e dei linguaggi. Sono partito dal teatro e lì rimango, con un linguaggio che amo molto, ma mi sono spinto nei libri con una scrittura che non è ‘palettata’ nel genere teatrale. Forse è stato il segreto di ‘Lehman Trilogy’, un testo difficile da confinare all’interno di un genere, e che contaminava vari generi diversi.
Dall’altro lato, la definizione di divulgatore l’ho trovata sempre pericolosa, perché nella lingua italiana il termine ‘volgo’ implica sempre un giudizio forte, sprezzante, ed è curioso perché l’italiano viene dall’antico volgare nobilitato da Dante Alighieri. Il primo trattato sulla lingua italiana si chiama non a caso ‘De vulgari eloquentia’, ma ‘volgare’, nella lingua italiana, è soprattutto ciò che è sporco, che è del popolo, e quanti danni ha fatto questo giudizio nei confronti di tutto quello che non è all’apparenza nobile, nobilitato e cortigiano. È un grande danno quello che abbiamo arrecato alla nostra cultura sprezzando così fortemente il volgo, il popolo, che alla fine è la maggioranza.
A ‘Piazzapulita’ ascolto la sua voce e sento quella ufficiale del teatro, ma lo vedo in abiti informali, comprensibile, vicino e utile. Collego la sensazione a quella di ‘Ricomincio da Raitre’, proposta colta ma non supponente, competente ma non elitaria. È quanto mi aspetterei sempre dal teatro.
L’analisi è giusta. Molte volte si pensa che quando si parla di teatro civile ci si riferisca ai temi in esso contenuti. Elda Pucci, per esempio, ha che fare col teatro civile in quanto testimonianza delle falle, delle pecche, delle zone d’ombra della società civile. Io credo invece che il teatro civile sia qualcosa di molto più alto e abbia a che fare con una modalità di approccio al teatro stesso. Ho sempre creduto che il teatro sia un linguaggio dalla funzione altamente democratica, quella del portare chiunque ad avvicinarsi a determinati contenuti, resi comprensibili, accessibili. Questa idea alta del teatro, della sua funzione civile, l’ho portata anche in televisione, luogo apparentemente lontano dal teatro, per avvicinare il pubblico televisivo a determinati contenuti con un linguaggio che nasce dal teatro. ‘Ricomincio da Raitre’ è stato un servizio che ho voluto rendere all’arte del teatro nel suo momento peggiore, ma pure modo di professare una mia fede e una gratitudine nei suoi confronti. Sono debitore di quella trasmissione e così di ‘Piazzapulita’, perché insieme mi hanno reso popolare e mi consentono oggi di riempire i teatri. La televisione è uno strumento molto pericoloso, può impiegare un istante a trasformarti in qualcos’altro rispetto a ciò che eri e che sei.
E invece lei riesce a spostarsi da ‘Piazzapulita’ ad ‘Amici di Maria De Filippi’ mantenendo la massima credibilità, e – nel secondo caso, parole sue – andandone fiero…
Ad ‘Amici’ andai a parlare di libri, avrei dovuto fare una sola puntata e ne feci otto, funzionò molto bene nonostante si trattasse di un atto estremamente, meravigliosamente kamikaze, quello di parlare di libri in un luogo non esattamente deputato a tale atto. È un’esperienza che continua a tornarmi indietro, incontro ventenni che ancora se ne ricordano. È stata una cosa forte e molto necessaria, che riporto nuovamente nel perimetro del teatro civile di cui parlavamo prima.
Mi perdoni l’incontrollabile curiosità: dove tiene il suo Tony Award?
Su uno scaffale, nella stanza in cui scrivo, a ricordarmi la grandezza delle cose impossibili.
Mi descriverebbe la sensazione del trionfo?
A distanza di un anno, per quanto l’immagine possa sembrare forte, continuo ad avvicinarmi a quel premio con l’atteggiamento di un miracolato. Persino dall’America, nonostante il successo dello spettacolo nei due allestimenti newyorchesi, mi si diceva che la nomination era già tanto, che vincere sarebbe stato pressoché impossibile per un non americano, ancor più per un non anglofono. Drammaturghi inglesi ve n’erano stati, ma si trattava di casi più che eccezionali, l’ultima era stata J. K. Rowling, un’eccezione alla regola. Quel premio è il ricordo che le cose impossibili possono accadere.
Vista la prolificità e il successo del suo scrivere, mentre le pongo domande che un giorno le porrà una macchina, magari anche in modo più articolato: quanto teme che la sua drammaturgia possa essere un giorno sostituita da un drammaturgo artificiale?
Stiamo parlando di qualcosa che galoppa con un passo incontenibile. Per molto tempo abbiamo pensato che l’intelligenza artificiale (Ia) avrebbe potuto intaccare l’aspetto tecnico delle nostre esistenze e invece ci viene detto che potrebbe soppiantare l’umano in campi prima inimmaginabili, dalla scrittura di un articolo di giornale a quella di un intero libro, o alla realizzazione di un’opera d’arte. Lo sappiamo, l’Ia è già in grado di dipingere un quadro come lo dipingerebbe Van Gogh o di scrivere un’opera come la scriverebbe William Shakespeare. Attenzione, però, perché stiamo correndo un rischio enorme.