‘Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane’, frase di Alphonse de Lamartine che è la logline di ‘Dogman’, l’ultima fatica di Luc Besson (nelle sale)
‘Dogman’, ultima opera e riflesso del grande amore per il cinema e la recitazione di Luc Besson, che riesce a costruire un mondo incredibile, crudo, fantastico e reale allo stesso tempo, con un protagonista magnetico capace, nonostante una vita tragica caratterizzata dai traumi e la quasi totale assenza d’amore, di trovare il suo spazio, grazie a un rapporto molto particolare con i cani. Definirli i migliori amici dell’uomo sarebbe qui davvero un eufemismo, perché il legame che si crea tra loro e il personaggio principale è al limite del surreale, portando lo spettatore a fare il tifo, come già accadeva soprattutto in ‘Lèon’ e ‘Anna’, per un uomo non esattamente retto, che si inserisce in una vita dove la violenza è ineluttabile e la fa da padrone. Una narrazione che sfrutta la tecnica del flashback all’estremo altalenando, con grande padronanza di montaggio, il presente e il ricordo, rivelando mano a mano le vicende e soprattutto le peripezie, cedendo continuamente il passo alla suspense nonché allo stato d’ansia che lo spettatore prova, per quasi tutta la durata del film.
In una notte piovosa, un blocco di polizia ferma un furgone, guidato da un travestito paraplegico ferito e al cui interno sono stivati una ventina di cani. L’inizio enigmatico in medias res prosegue con l’arresto dell’uomo, Douglas, che quindi ripercorre la sua infanzia fino a quel momento, attraverso una serie di dialoghi con la psichiatra Evelyn. Doug racconta della sua vita in una famiglia ultracattolica e oltre il disfunzionale, con un padre violentissimo, una madre succube e un fratello sadico. L’attività giornaliera paterna consiste in una forma d’odio verso ogni cosa, in particolare nei confronti dei tanti cani che possiede, affama e tortura, per rinforzarli come combattenti nelle lotte clandestine. Il piccolo Doug prova invece per loro un sincero amore e, nutrendoli di nascosto, viene quindi rinchiuso in gabbia e ridotto a uno stato pietoso, tra la sporcizia e la malnutrizione. Abbandonato persino dalla madre che, incinta, decide di andarsene per un futuro migliore, il giovane viene poi reso invalido da un colpo di fucile sparato dal padre, a causa di alcuni cuccioli che Doug fa nascere di nascosto. Quest’inondazione che trabocca un vaso già pieno, porta il ragazzo a reagire con l’aiuto di un cagnolino, che viene mandato alla ricerca di una pattuglia di polizia, con conseguente liberazione del giovane e arresto dei parenti.
Trasferito in orfanotrofio, Doug si avvicina al teatro grazie all’educatrice Salma, l’unica a interessarsi a lui e di cui si innamora, fino alla sua partenza in seguito a un’offerta di lavoro come attrice teatrale. Il giovane diventa uomo, lavora in un rifugio per cani con cui instaura un rapporto di comprensione reciproca totale, senza la necessità di nessun particolare addestramento, finché non viene intimato alla chiusura dal governo per mancanza di sussidi. Fuggito coi suoi animali, ormai considerati come dei figli, alla disperata ricerca di lavoro diventa una drag queen, commuovendo un regista teatrale grazie a una magnifica interpretazione del brano ‘La Foule’, di Edith Piaf. Costruitosi una reputazione nel quartiere, anche grazie alla vendita di cani da guardia, Doug compie qualche rapina in abitazioni lussuose con il loro aiuto, quindi si scontrerà con El Verdugo, capo di un’organizzazione criminale mafiosa locale, che terrorizza gli esercenti estorcendo loro il pizzo.
Una spirale discendente che riesce a portare tenerezza anche negli edifici diroccati, dove quindi non dovrebbe esistere, caratterizzando un peculiare antieroe moderno che, spesso con un emblematico sorriso, lotta per conservare la propria umanità in un mondo spietato, dove non esiste aiuto ne salvezza. Il colpo di fucile che mozza un dito e paralizza le gambe di Doug, paradossalmente, costituisce l’inizio di una potenziale ripresa che, anche se altalenante, lo porta a diventare una persona con valori e principi quali l’affetto, la comprensione reciproca e l’altruismo. La colonna sonora è perfettamente fusa all’interno delle scene ed erompe con forza quando deve, Besson riesce nell’impresa di rinnovare brani estremamente abusati nel cinema, come ‘Non, je ne regrette rien’ o ‘Sweet Dreams (Are Made of This)’. Il suo personaggio disabile, che sembra innocuo ma è tutt’altro che indifeso, grazie certo ai suoi cani ma anche a un particolare ingegno e capacità di vedere attraverso le cose con grande razionalità, è simile al Joker di Joaquin Phoenix, risultando però più profondo, contraddittorio e consapevole dell’inesorabile crudeltà della vita, senza alcun tipo di piagnisteo o facile soluzione.
Doug è interpretato davvero magistralmente da Caleb Landry Jones, dal volto polimorfico che viaggia da un estremo diabolico a una tenera maschera, già noto ai cinefili grazie, tra gli altri, a ‘Nitram’, che gli valse il Prix d’interpretation masculine di Cannes. Tutta l’ipocrisia del perbenismo americano, in contrasto con la violenza, viene alla luce in questa critica anche sociale, variegata e che si sviscera attraverso un personaggio per cui il camminare, l’andare avanti, è letteralmente sinonimo di morte, senza però lasciarsi sopraffare dalla paura.