Hallenstadion in piedi per l’ultima volta del pianista in Svizzera, più che un concerto, un’esperienza immersiva. Noi c’eravamo
Chissà come l’avrà presa, Elton John, la notizia che il tour di Taylor Swift incasserà più del suo tour d’addio, il ‘Farewell Yellow Brick Road’ (che cita l’album del 1973) con il quale da quasi cinque anni – al lordo del Covid – il pianista britannico sta salutando il suo affezionatissimo pubblico. In verità, “questo sarà il mio ultimo concerto” è frase che l’affezionatissimo pubblico ha già sentito almeno un paio di volte nella vita. La prima fu nel 1977, nell’allora Empire Pool Wembley di Londra (oggi OVO Wembley) con l’artista in piena crisi personale e sulla scia di un album – ‘Blue Moves’, uscito nel 1976 – che per la prima volta non sbancava le classifiche, complice un coming out che l’America puritana aveva vissuto come un tradimento. Anche nel 1984 Sir Elton annunciò un mezzo addio dopo i concerti al Wembley Stadium (oggi sempre Wembley Stadium, ma l’edificio è un altro), per tornare un anno dopo a Live Aid. E con l’ennesimo tour mondiale.
Stanze d’hotel alle stelle, biglietti da 98 a 260 franchi, 300 quelli che danno diritto al posterino e altri gadget eltonjohnati. Anche il merchandising ha prezzi per benestanti: l’occhiale luminoso costa 25 franchi, la tazza pure, la t-shirt 50 (quella economica), ma a Zurigo nessuno si offende, perché Elton John non è mai stato il paladino della working class e ha frequentato i reali d’Inghilterra molto prima che Springsteen frequentasse gli Obama.
È sabato primo luglio e a pochi chilometri di distanza la città sulla Limmat sta ospitando i Coldplay; alle venti e un minuto in pacca, l’Hallenstadion con gli occhialetti lampeggianti è già in piedi per ‘Bennie & The Jets’ e ‘Philadelphia Freedom’, l’Elton John bianco che a metà anni 70 spopolò nelle classifiche di musica black. «Alla fine ce l’abbiamo fatta», dice il cantante. «Grazie per avere conservato i biglietti, vi ripagheremo con un grande spettacolo». Perché è il concerto d’addio, ma anche il recupero degli show saltati per pandemia. E in piedi, l’Hallenstadion rimarrà a lungo.
Per chi non avesse mai visto Elton John dal vivo, tutto è sempre ‘grande spettacolo’. Per una volta, lo è stato anche per chi da anni vive l’ennesimo concerto come un gesto di cortesia, un atto dovuto, un pellegrinaggio, e il ‘Farewell Yellow Brick Road’, lo si sa da tempo, è un’esperienza immersiva tipo quelle di Van Gogh e Monet, ma con l’artista ancora vivo e vegeto. E dunque, grazie al muro di schermi dentro il quale stanno – divisi su più piani – pianista e musicisti, ‘Rocket Man’ non è più solo ‘Rocket Man’, ma un volo nello spazio a prezzi più modici di quanto chiede Elon Musk.
Ben Gibson / HST Global Limited t/a Rocket Entertainment
Comunione
A essere onesti, a Zurigo ci sono momenti di spettacolo più grandi di altri. Come il tributo ad Aretha Franklin, che nel 1970, mentre Elton John conquistava gli Stati Uniti sulle note di ‘Your Song’, cantò la sua ‘Border Song’, inno di fratellanza contenuto nel capolavoro che porta semplicemente il suo nome. «Io e Bernie (Taupin, il paroliere, ndr) non potevamo crederci, la regina del soul che cantava una nostra canzone!». Il pianista ricorda l’ultimo incontro con Aretha, anno 2018, Cattedrale di Saint John The Divine, New York: «Era già molto malata, scheletrica, ma quella notte il pubblico fu tutto per lei». Il tempo di un applauso dell’arena zurighese e nella versione piano e voce di ‘Border Song’, insieme alla regina del soul, gli schermi rimandano primi piani di tutti coloro che hanno abbattuto confini (border), da Lady D. a Little Richard, da Elvis a Marilyn (che più tardi campeggerà, triste, nelle proiezioni di ‘Candle In The Wind’), da Rosa Parks, prima donna nera a non cedere il posto a un bianco sul bus, a Martin Luther King, a Pelé, a John Lennon. Fino a mamma Sheila, madre di Reginald Kenneth Dwight, più tardi noto come Elton John.
‘Rocket Man’, nell’Hallenstadion che fluttua nello spazio profondo, ha sempre la sua coda dilatata a dismisura, un momento improvvisativo tanto semplice quanto ipnotico alla fine del quale John Mahon, percussionista e corista aggiunto allo storico Ray Cooper (quello del tour in Russia) fa una faccia del tipo “e anche questa volta abbiamo fatto la storia”. Cooper, per inciso, con i suoi tamburi, tamburelli e timpanoni, occupa un piano intero dell’‘edificio’ che ospita l’odierna Elton John Band, formazione che di quella che durò fino al 1992, con la dipartita del bassista Dee Murray, ancora comprende il biondo direttore musicale Davey Johnstone alle chitarre e il distinto Nigel Olsson alla batteria. «Quella di oggi è la mia band favorita, perché ogni volta mi spingono a fare di più», dice Elton, prima del ricordo di Tina Turner, nella sua Zurigo: «Lo confesso, non sapevo che fosse così malata. È stata la più grande entertainer di sempre, come lei non ne vedremo più». Ringrazia il marito Erwin Bach per averla resa felice, «perché lei meritava di esserlo», e le dedica ‘Don’t Let The Sun Go Down On Me’, che cade a fagiolo quanto, poco più in là, ‘The Bitch Is Back’, che Tina cantò in più di un’occasione.
Ci sarebbe un’altra storia, che viene da un punto di non ritorno intitolato ‘Captain Fantastic & The Brown Dirt Cowboy’, album autobiografico del 1975. S’intitola ‘Someone Saved My Life Tonight’ ed è il racconto del giovane promesso sposo a una giovane donna – l’Elton dei primi anni Settanta – che tentò il suicidio aprendo il gas, ma anche le finestre. “Grazie a Dio la mia musica è ancora viva”, canta in quel pezzo. Ringraziamento cui ci uniamo con piacere.
Ben Gibson / HST Global Limited t/a Rocket Entertainment
Elton John
Sugli schermi, insieme a ‘I’m Still Standing’, scorrono tutti gli Elton di sempre, in un collage di videoclip, apparizioni televisive, estratti di ogni tipo e versioni non umane (quella dei Simpson); su ‘Crocodile Rock’ l’artista si scorda le parole e sul palco tutti ridono; su ‘Saturday Night’s (Alright For Fighting)’ è solo rock and roll, ma vuoi mettere: più integro dei caposcuola Jerry Lee Lewis e Little Richard, che a 76 anni erano già bolliti, Elton John ancora picchia le dita sulle ottave alte, in nome di quella ribellione pianistica fondata dai predecessori e da lui più modernamente riscritta; picchia le dita fino che non ne può più e si accascia, sfinito, sullo strumento.
Infine, il rito laico dei bis, dove ‘Your Song’ apre a ‘Goodbye Yellow Brick Road’, al termine della quale Sir Elton prende una scala mobile e scompare dietro la scena come Truman Burbank di ‘Truman Show’. Riapparirà di lì a poco di spalle, sullo schermo principale, percorrendo una strada che pare quella di mattoni gialli (yellow brick road), ma che potrebbe pure essere la via che porta al Paradiso dei pianisti. Ma non ora, poi (perché, alla fine: siamo proprio sicuri che sia stato l’ultimo concerto?).
Ben Gibson / HST Global Limited t/a Rocket Entertainment
Hallenstadion