Dal 16 al 27 maggio, un'edizione segnata da un confronto d'identità dal quale dipende la sopravvivenza del cinema stesso
Se c’è un momento dell’anno in cui il cinema celebra sé stesso mondialmente, al di là delle feste provinciali come gli Oscar, i David e altri premi regionali, è il Festival di Cannes, un momento unico di un pellegrinaggio artistico che rende ancora dopo 76 anni l’idea di un cinema dimenticato, quello che si definiva ‘La Settima Arte’. Cannes non è l’industria cinematografica nazionale che si autocelebra negli Stati Uniti come Oscar: per rendersene conto basta ricordare una recente intervista a Julien Rejl, nuovo Delegato generale di quella che è stata chiamata ‘Quinzaine des Cinéastes’, termine neutro invece di uno maschile, al posto cioè di ‘Quinzaine des Réalisateurs’, manifestazione parallela al Festival nata nel 1968 e che quest’anno sembra poter contare sulla presenza di Quentin Tarantino (cui è dedicata, alla Quinzaine, la giornata del 25 maggio con la presentazione di film a sorpresa e un incontro sulla sua contro-storia del cinema).
Il pensiero di Julien Rejl sulla scelta dei film, in contrasto con le scelte di Thierry Frémaux, ci fornisce una visione illuminata sul cinema internazionale: “È chiaro – spiega Rejl – che molte scelte indicano la mia diversa visione rispetto a Frémaux. Non dare loro la priorità non significa rifiutarli dall’inizio, ma piuttosto che non sono in cima alla lista o hanno la priorità rispetto ai film di scoperta”. E dunque, se uno di quei film gli fosse piaciuto e corrispondesse alla linea editoriale espressa dalla Quinzaine des Réalisateurs, Rejl l’avrebbe invitato. “Ma da 10 a 15 anni”, segnala un fenomeno: “I film molto attesi in concorso sarebbero stati respinti da lì e sarebbero poi finiti alla Quinzaine des Réalisateurs. Non per niente Thierry Frémaux ha poi creato Cannes Premieres: per dare un posto nella selezione ufficiale a registi che avevano perso il concorso e di cui voleva mostrare il lavoro, e forse anche per impedire che quei film venissero proiettati altrove”.
Secondo Rejl, la Quinzaine des Réalisateurs fa un lavoro diverso. Si tratta di una selezione a tutti gli effetti all’interno del Festival di Cannes, una sezione completamente indipendente e, “nello spirito del 1969”, deve essere una specie di contro-programma. In questo senso, aggiunge di non poter prendere i film che la Selezione Ufficiale ha scartato, pena il veder rovinarsi il suo stesso programma. Rejl non ha dunque nulla contro questi film o contro i relativi registi, ma dice di aver bisogno di creare un’identità. Sono film che sarebbero potuti arrivare alla Quinzaine des Réalisateurs o nella Selezione Ufficiale e hanno già un certo cachet in termini di fama internazionale, cast noto, successo cinematografico. Si chiede se debba dare priorità al giovane cineasta vietnamita al suo primo lungometraggio e che senza Cannes e la Quinzaine des Réalisateurs forse non emergerebbe mai, o a qualcuno già atteso tra i big nelle previsioni del Concorso Ufficiale. E si risponde così: “Personalmente, do la priorità al lungometraggio d’esordio”.
Quanto ai cineasti affermati che volevano essere in Concorso, se trova che il loro nuovo film sia meno buono del loro lavoro precedente – continua Rejl – non vede motivo per la Quinzaine des Réalisateurs di mostrarlo. E, ancora, se un film viene proiettato alla Quinzaine des Réalisateurs e alla Selezione Ufficiale allo stesso tempo, “e il team dietro il film è abbastanza onesto da dire che Thierry Frémaux ha la priorità ma che se non lo fa sarebbero interessati ad andare alla Quinzaine des Réalisateurs”, in tal caso prende in considerazione il film. Rejl rimarca che, tuttavia, alcune persone aspettano il giorno della conferenza stampa della Selezione Ufficiale, e una volta scoperto che il loro film non rientra in essa, improvvisamente sono ansiosi di mostrarglielo: “Io sono contro” (il virgolettato è tratto dall’intervista di Fabien Lemercier a Julien Rejl; la versione integrale è su www.cineuropa.org).
Troppo importante per la sopravvivenza del cinema è questo confronto d’identità che segna questa edizione, in cui già sulla carta trionfano infaticabili vecchietti. Pensiamo alla presenza dell’ottantenne Martin Scorsese, con il quasi coetaneo Robert De Niro, fuori concorso con il suo ‘Killers of the Flower Moon’, tratto dal romanzo di David Grann. Si unisce ai due Leonardo DiCaprio, e pensiamo che 80 anni li ha anche Harrison Ford, che torna per la quinta volta con ‘Indiana Jones e il quadrante del destino’ nei panni del celebre archeologo, anche lui fuori concorso.
In competizione, invece, ha 86 anni Ken Loach (vincitore di due Palme d’oro) che con il suo ‘The Old Oa’ ci porta in un pub, la Vecchia Quercia, per dirci dell’unico spazio pubblico dove le persone possono incontrarsi in una comunità mineraria un tempo fiorente che ora sta attraversando un periodo difficile, dopo 30 anni di declino. 83 ne ha Marco Bellocchio che in ‘Rapito’ racconta una storia di metà Ottocento, la vicenda del piccolo Edgardo Mortara, di famiglia ebrea, allontanato per ordine dell’Inquisitore di Bologna dalla famiglia e portato nella Roma di Pio IX per essere educato da cattolico. Solo 77 ne ha Wim Wenders che torna a Cannes in concorso con il suo ‘Perfect days’ ambientato a Tokyo.
Un gran lavoro comunque è quello destinato alla Giuria Ufficiale guidata dal due volte Palma d’oro Ruben Östlund (‘The Square’, ‘Triangle of sadness’) e composta dalla regista marocchina Maryam Touzani, dall’attore francese Denis Ménochet, dalla sceneggiatrice e regista anglo-zambiana Rungano Nyoni, dall’attrice e regista americana Brie Larson, dall’attore americano Paul Dano, dall’autore afghano Atiq Rahimi, dal regista e sceneggiatore argentino Damián Szifrón e dalla regista francese Julia Ducournau, che nel 2021 vinse qui la Palma d’oro per ‘Titane’.
Sul manifesto del Festival che domina la Croisette c’è Catherine Deneuve, ritratta dal fotografo di Paris Match Jack Garofalo sulla spiaggia di Pampelonne, vicino a Saint-Tropez, sul set del film di Alain Cavalier ‘La Chamade’, dal romanzo di Françoise Sagan. Era il 1968, al suo fianco la divina Deneuve aveva Michel Piccoli, e nel 2020 confidò a Le Figaro: “Avevamo tante scene insieme e questo dipendeva dalla natura di ciò che dovevamo interpretare: un’intimità di coppia molto forte. D’un tratto, era diventato un uomo che avrei potuto amare”. Anche queste sono storie di Cannes.
E ora silenzio in sala, si aspetta il film inaugurale ‘Jeanne du Barry’ di Maïwenn con Johnny Depp nella parte di Luigi XV. Come dimenticare quello che Madame de Pompadour profetizzò a questo sovrano: “Après nous, le déluge!” (Dopo di noi, il diluvio), un pensiero che talvolta si affaccia nelle nostre menti, anche qui sulla Croisette appena illuminata con le onde del mare che si affollano sulla spiaggia.