Nel cast di Netflix Kim Rossi Stuart e Deva Cassel. L'autore del celebre romanzo ambientato nella Sicilia del XIX secolo, pubblicato postumo, morì povero
Una lite legale durata 65 anni, dal 1885 al 1950, una risoluzione giunta quando delle ricchezze della famiglia non esisteva più nulla e lo scrittore Giuseppe Tomasi si ritrovò povero, senza neanche i soldi per comprare un soprabito e partire con il cugino, il poeta Lucio Piccolo, alla volta di San Pellegrino Terme. Fu così che il principe di Lampedusa, futuro autore del ‘Gattopardo’, sbarcò in agosto in Lombardia con un cappottone pesante.
L'opera è stata pubblicata postuma dall'editore Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore. Ironia della sorte, ‘Il Gattopardo’ ha vinto il Premio Strega nel 1959, diventando uno dei libri più venduti nel secondo dopoguerra ed è considerato una fra le più grandi opere letterarie in Italia e nel mondo.
‘Il Gattopardo’, racconto epico ambientato in Sicilia durante i moti del 1860, è uno dei più grandi romanzi italiani di tutti i tempi e dopo il film di Luchino Visconti, Palma d'oro a Cannes 60 anni fa, diventa ora una serie tv per Netflix le cui riprese sono cominciate in questi giorni. Kim Rossi Stuart è Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina (nei panni che furono di Burt Lancaster), Benedetta Porcaroli è Concetta, Deva Cassel è Angelica (la Cardinale nel film cult) e Saul Nanni Tancredi (Alain Delon all'epoca). La serie, in sei episodi, prodotta da Indiana Production e Moonage Pictures con la regia di Tom Shankland, Giuseppe Capotondi e Laura Luchetti, è sul set in questi giorni per riprese che dureranno oltre quattro mesi tra Palermo, Siracusa, Catania e Roma.
Un genio inconsapevole Tomasi, per anni soffocato dalla madre, donna Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò che lo chiamava con nomi femminili e minò parecchio la sua sicurezza. E quando si ritrovò povero in canna dopo le liti giudiziarie sull'eredità del bisnonno, Giulio Tomasi – che altri non era se non don Fabrizio del Gattopardo –, per campare il futuro scrittore dovette accettare l'incarico di presidente della Croce Rossa.
I documenti legali con l'elenco dei (pochissimi e miseri) possedimenti che giunsero a Tomasi sono il cuore di un incontro che si svolgerà domani (29 aprile) a Palermo, in cui lo storico e appassionato raccoglitore di storie Salvatore Savoia illustrerà documenti del tutto inediti, insieme ad altre lettere, fascicoli, biglietti, persino la ricevuta per l'imbalsamazione di un enorme Terranova che è probabilmente lo spunto da cui nacque Bendicò, il cane che affiora dal Gattopardo.
Savoia tratteggerà la figura di un "genio" inconsapevole del suo valore, un uomo silenzioso, ritirato, che ben poco possedeva dell'allure nobiliare e della ricchezza dei suoi avi. Ed eccoci alla famosa eredità: tra i possedimenti finalmente sbloccati – oltre a palazzi, somme, persino le terre dove oggi sorge la discarica palermitana di Bellolampo, tutto nel frattempo venduto o cancellato – ai Tomasi giunse anche il castello di Montechiaro, nell'Agrigentino. Un rudere, ma Licy, moglie di Tomasi – l'energica baronessa lettone Alexandra von Wolff-Stomersee –, si convinse che la coppia doveva trasferirsi lì per "fuggire" dalla misera pensione in piazza Politeama, sotto gli occhi di tutti i nobili cittadini, unico rifugio perché palazzo Lampedusa stava crollando dopo la distruzione delle bombe del '43.
Giuseppe Tomasi, per dissuadere la moglie dal progetto, inventò una finta corrispondenza con i carabinieri di Palma di Montechiaro che "sconsigliavano" il trasferimento, giudicato poco sicuro in tempi di rapimenti frequenti. Chi dovesse mai sequestrare due nobili in bolletta, non è dato sapere, ma la baronessa Licy per fortuna desistette dal progetto e la coppia rimase a Palermo.