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Davanti agli occhi ‘tutta la bellezza e il dolore del mondo’

Laura Poitras racconta la fotografa Nan Goldin. Distribuito da Filmcoopi, il docu-film sarà nelle sale svizzere da oggi; all’Otello di Ascona da domani

La fotografa e attivista Nan Goldin durante un’azione di denuncia e sensibilizzazione con l’organizzazione civile PAIN
(© Participant-Film-LLC-Courtesy-Of-Participant)
27 aprile 2023
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“Sono entrata nel mondo dell’arte facendo un ‘servizietto’ al tassista”, che, in cambio, l’aiutò a portare diverse scatole di fotografie a un curatore di cui, ora come ora, sfugge il nome, ma che capì la potenza di quegli scatti. Di là dalla narrazione molto autoironica che lei stessa dà dei suoi esordi, Nan Goldin si è fatta strada nel mondo della fotografia e dell’arte (che agli inizi l’ha bistrattata) con unghie e denti, arrivando ad affermarsi come una fra le artiste più importanti della scena contemporanea.

La sua storia (aneddoto del tassista compreso) è raccontata nell’intenso ed emozionante ‘Tutta la bellezza e il dolore’ (‘All the Beauty and the Bloodshed’, 2022) della regista statunitense Laura Poitras, candidato al Premio Oscar 2023 come miglior film documentario e già Leone d’oro alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia. Il potente documentario di due ore verrà proiettato in alcune sale cinematografiche svizzere da oggi; in Ticino si potrà vederlo al Cinema Otello di Ascona da venerdì 28 aprile al 1º maggio prossimi (in inglese con sottotitoli in italiano).

È una storia intima (che ne interseca molte altre) raccontata con carrellate di diapositive, interviste, anche d’archivio, spezzoni di filmati recenti e storici, fotografie, registrazioni audio. Ma anche dalla voce schietta di Nan Goldin, fotografa, artista visiva e attivista statunitense, nata a Washington il 12 settembre 1953. Poitras ripercorre la sua vita componendo un film in sette capitoli, intrecciando un doppio nastro: fotografia e attivismo. In mezzo, c’è una vita (anche se paiono mille) dolorosa, sovversiva, intensa, solidale, fatta di sregolatezza, cadute, ma anche tanta forza per rimettersi in piedi, resistere e combattere. Nelle due ore, si ride, si piange, si prova rabbia (quella che ti farebbe smuovere montagne per qualcosa di giusto), ci si meraviglia della forza, della bellezza, del dolore che diventa carburante del proprio fare. E, proprio fra le prime battute, è la stessa protagonista ad affermare (parola più, parola meno) che “è facile raccontare la storia della propria vita, più difficile è conservarne i ricordi, che sono il posto della vulnerabilità”.

Punto di partenza

Il contesto familiare in cui Nancy Goldin viene al mondo è affatto facile e amorevole. Ancora piccola si verifica l’evento che turba e segna la sua esistenza: il suicidio della sorella Barbara (che si toglie la vita a 18 anni) cui è molto legata, la sola in famiglia che le mostri affetto.

I genitori nascondono e negano il gesto di Barbara, ma decidono di dare in affidamento Nancy (per paura dello stesso triste epilogo), che viene accolta e mandata via da famiglie affidatarie, finché decide di cavarsela da sola. A quell’epoca, incontra David Armstrong: è stato lui a ribattezzarla Nan. La loro amicizia è fraterna e ombelicale, tanto che nel documentario la fotografa confessa che “si sono liberati a vicenda”. Le amicizie strette in quegli anni sono per Goldin la sua vera famiglia “allargata”.


© Participant-Film-LLC-Courtesy-Of-Participant
La famiglia allargata

‘Ho trovato la mia voce’

A quel tempo, Nan scopre la fotografia usando una Polaroid: “Era l’unica lingua che parlavo. Allora non avevo identità e la fotografia mi ha dato una voce”. Fin dagli inizi degli anni Settanta, scatta e raccoglie una quantità considerevole di fotografie, “documentando – riporta la sinossi – la vita intima della comunità di amici e artisti che la circondano, celebrando le persone e le sottoculture”, in particolare drag queen, comunità omosessuali… sé stessa.

Le sue opere più note sono la mostra di diapositive ‘The Ballad of Sexual Dependency’ (pubblicata come libro nel 1986) e i libri ‘The Other Side’ (1993), ‘A Double Life’ (1994) e ‘Tokyo Love’ (1994). “Tutto il mio lavoro riguarda lo stigma, che si tratti di suicidio, malattia mentale, genere”, capendo solo in seguito che ha forte valenza politica, capace di rivoluzionare l’arte della fotografia.

‘Sackler lie, people die’

Secondo nastro su cui scorre la storia della fotografa è l’impegno come attivista. La regista – per dirla ancora con la sinossi – ne ricostruisce “l’epopea umana e artistica a partire dalla sua battaglia contro la famiglia Sackler, tra le maggiori responsabili della crisi degli oppioidi che ha causato negli Stati Uniti un incremento costante di morti per overdose da farmaco”.

L’impegno pubblico arriva dopo la sua disintossicazione, di cui riferisce nel 2017, dal farmaco contenente ossicodone prescrittole come antidolorifico per una tendinite. Viene a sapere che la società produttrice di quel farmaco, la Purdue Pharma, è della famiglia Sackler. Intenzionata a smascherarla, con altri artisti, attivisti e persone che hanno sofferto della dipendenza, Goldin fonda PAIN (Prescription Addiction Intervention Now). Questa organizzazione, fra il 2018 e il 2019, compie azioni di protesta e denuncia nei musei beneficiari dei finanziamenti dei Sackler. Proteste che hanno spinto varie istituzioni artistiche e culturali a rifiutare il denaro della potente famiglia e a far togliere le targhe con il suo nome.


© Participant-Film-LLC-Courtesy-Of-Participant
Durante un’azione di denuncia contro la famiglia Sackler

L’attivismo di Goldin non si ferma qui, in quanto partecipa anche ad Act Up (Aids Coalition to Unleash Power).

Postille

In conclusione, il film torna sulla figura fondamentale della sorella di Goldin e dà un elemento filologico per capire quale sia la fonte del titolo: cioè la cartella clinica di Barbara. Il medico che la seguiva scrive nel rapporto che è come se, in pochi anni di esistenza, la ragazza abbia avuto davanti agli occhi “tutta la bellezza e tutto il dolore del mondo”.

Chiudiamo con una nota “locale”. Nel 1997 la fotografa era in Ticino perché fra i membri della giuria ufficiale della 50esima edizione del Locarno Film Festival, presieduta da Marco Bellocchio. Una fotografia d’archivio la ritrae insieme a un’altra grande fotografa statunitense: Cindy Sherman.


Keystone
Goldin con la fotografa Cindy Sherman nel 1997 alla 50esima edizione del Locarno Film Festival