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Enzo Jannacci e il suonatore di contrabbasso

Come il titolo della canzone, come l’intervistato, Riccardo Fioravanti, che ci racconta Enzo Jannacci a dieci anni esatti dalla morte

Enzo Jannacci. A destra, Fioravanti
29 marzo 2023
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“La vita non si accorge di nessuno, figuriamoci di un suonatore di contrabbasso”. Sono le parole finali de ‘Il suonatore di contrabbasso’, una bellissima canzone di Enzo Jannacci, geniale saltimbanco della musica italiana che a dieci anni esatti dalla sua scomparsa vogliamo ricordare con l’aiuto del suo contrabbassista per eccellenza, Riccardo Fioravanti. «Uno dei suoi contrabbassisti», specifica l’intervistato. «Ho avuto la fortuna di stare con lui tanti anni, ma sono molti i bassisti che si sono avvicendati al suo fianco. Come tu sai, Enzo era un jazzista e amava molto i musicisti che suonavano jazz. La canzone che hai citato era idealmente dedicata a un grandissimo dello strumento, Marco Ratti, scomparso, uno che ha suonato tantissimo in Svizzera, insieme a Paolo Tomelleri e a tanti altri. Ratti era famoso per le sue grandi mani, che Enzo cita nel pezzo». “Mani grosse, capelli bianchi, passo svelto andatura da giovanotto”, appunto.

Riccardo Fioravanti: in quel pezzo, sull’album ‘Quando un musicista ride’, tu ‘pizzichi’ il contrabbasso e Marco Antonio Ricci usa l’archetto…

Sì, Marco Ricci, mio grande amico, colui che con Enzo prese il mio posto al basso. Ci siamo avvicendati, è stato molto bello suonare insieme.

I versi che ho scelto per cominciare questa intervista mi sembrano ben rappresentare il mondo di Jannacci, che racconta ancora una volta, col suo modo un po’ stralunato, quelli di cui la vita pare non accorgersi…

Il contrabbassista rientra in questa categoria. Effettivamente capita, alla fine dei concerti, di sentirsi dire: “Ah, ma eri qui anche tu?”, e devi specificare che eri sul palco a suonare. Per non parlare del basso elettrico, ancor più sconosciuto, che viene scambiato per chitarra e tu devi spiegare che non ha quattro corde perché gliene hai tagliate due.

Sì, è vero, Enzo ha sempre cantato i reietti, è stata una sua caratteristica fortissima. Noi contrabbassisti non siamo esattamente dei reietti: siamo effettivamente i musicisti più nascosti all’interno della band, ma anche quelli fondamentali, perché facciamo la nota fondamentale. Da buon jazzista, Enzo questa cosa la sapeva, un pianista non può fare a meno di un bassista. Non a caso, tanti pianisti sono anche bassisti: Dado Moroni, Andrea Pozza, Kenny Barron. Enzo suonava anche il contrabbasso e il basso elettrico.

Restando in ambito jazzistico. Jannacci suonava anche altri strumenti sotto lo stimolo di Franco Cerri, c’è una registrazione che lo testimonia. È Cerri il nome che vi ha messi in relazione?

Sì, perché Cerri è la persona che ha messo in relazione tutti i musicisti milanesi che gravitavano intorno all’area jazz e non solo. Mi ricordo di Franco in televisione, in meravigliosi programmi come ‘Fine serata da Cerri’, show nei quali invitava i grandi musicisti, gente come Jean-Luc Ponty, Johnny Griffin, Jimmy Smith, e lo stesso Enzo. Franco Cerri era un grande divulgatore oltre che un grande jazzista. Così come Gianni Basso, è stato un padre putativo per me. Enzo invece è stato una specie di fratellone, un personaggio più scherzoso, giocoso, sempre profondo però. Era la Milano di quegli anni, che mischiava il jazz con quello che oggi si chiama pop, ma che a me piace ancora chiamare ‘musica leggera’.

Pensando a quella di Enzo Jannacci: in quale aspetto della sua musica si ritrovano le influenze jazzistiche?

Sicuramente nella parte armonica, oltre che in quella melodica. Essendo lui nato jazzista, molti dei suoi brani erano costruiti su quelli che in italiano si chiamano ‘mascheramenti’ e in americano ‘camouflage’. Se prendiamo un brano come ‘Vincenzina e la fabbrica’, scopriamo che gli accordi sono gli stessi di ‘Autumn Leaves’, uno standard per eccellenza. La cosa ricorre anche nei brani di un suo grandissimo amico, Luigi Tenco: ‘Vedrai, vedrai’, ‘Mi sono innamorato di te’ e molti altri ancora hanno quel tipo di struttura armonica, accordi che si inseguono per salti di quarta e prendono tutti i tipi di scale e di accordi all’interno della tradizione jazzistica. Dentro c’è anche la canzone francese, per quanto attiene alla sua radice più jazzistica, e tutti gli standard che Enzo ha suonato con grandi musicisti come Lee Konitz, Kenny Clarke. Enzo ha addirittura preso lezioni da Bud Powell, il sacerdote del bebop.

Come lavorava Jannacci, come metteva in relazione la scelta di una certa melodia con il testo che aveva scritto?

Posso raccontarti la genesi de ‘Il suonatore di contrabbasso’, perché ero presente quando la canzone è nata. Mi fece sentire i primi due accordi, maggiori, sui quali girò a lungo, cominciando a tessere le prime parole del testo, le mani grosse, la casa che s’intuiva solitaria, questo strumento ingombrante e la persona altrettanto ingombrante. È stato emozionante sentirlo creare. In genere la musica arrivava prima, altre volte arrivavano prima le parole, che gli venivano in mente magari in Vespa, in giro per Milano, in bici o coi pattini ai piedi. Spesso, essendo musicista, si metteva al piano, suonava e le idee venivano da sé.

Parlando del vostro rapporto musicale e umano: cosa significava andare a fare un concerto con Enzo Jannacci, stare sul palco con lui, e dietro le quinte?

È sempre stata una cosa divertente e profonda. Divertente perché eravamo tutti amici, e io l’ho sempre considerato come tale. Enzo l’ho conosciuto come medico, non come musicista. Una volta tornato dal militare, nel 1979, era cambiato l’assetto della mutua milanese. Mi ritrovai senza un medico, erano tutti occupati, mi chiesero di provare alla sede centrale dove in un libro c’era l’elenco dei medici; trovai ‘Jannacci Vincenzo’, chiesi conferma che fosse proprio il cantante e musicista e mi risposero “sì, è lui, ma non c’è mai perché suona”. Perfetto, mi dissi, anche io suonavo, era il mio medico. Andai da lui, parlammo un paio d’ore di musica, e fu molto bravo nella diagnosi del problema che avevo. Poi, quando aprì il Bolgia Umana (locale milanese da lui aperto nel 1993, da cui la trasmissione tv ‘M.B.U.’, Milano Bolgia Umana del 1997, ndr), il rapporto si approfondì.

Fu Paolino, il figlio, a sentirmi in cuffia mentre suonavo con la big band di Tomelleri, grande amico di Enzo e suo compagno di studi di medicina. Quando suonavo al Bolgia Umana c’erano sempre Enzo, Paolino, Tomelleri, Stefano Bagnoli, Giorgio Cocilovo, Stefano Farina, amici e persone divertentissime, dei cabarettisti nati. La gioia per me cominciava quando partivo per andare a suonare. Poi, sul palco, la cosa diventava serissima: per me, musicista non ancora abituato ad ascoltare il testo mentre si suona, con Enzo era un’impresa; i suoi testi ti catturavano, dovevi stare attento a non ascoltare troppo quel che diceva, pena il distrarsi completamente dalla musica e il rischio di sbagliare. Con nessun altro mi è successa una cosa del genere. Provavo un senso di vertigine.

Abbiamo parlato dei vari strumenti, mi fai pensare all’importanza della voce di Enzo Jannacci. Il suo strumento per eccellenza è stato quello…

Tutti l’hanno sempre criticato perché non intonato, per la voce non educata. In realtà Enzo era come Lucio Battisti, un’altra voce ineducata, un altro musicista. Era riduttivo chiamarli cantautori, per come trasmettevano, nel caso di Enzo, l’emozione fortissima della drammaturgia del testo. Battisti ha valorizzato i testi di Mogol come nessun altro; Enzo valorizzava i testi di Dario Fo o degli altri che hanno scritto per lui, come Paolo Conte. Ma i testi propri, chiaramente, li valorizzava ancora di più. I personaggi della Milano degli anni ’50 e ’60, come tutti gli altri, li viveva. Per me la voce di Enzo era la più emozionante che ci fosse. Uno strumento perfetto, nella sua imperfezione.

Come era Enzo Jannacci in sala di registrazione?

Era esigente con sé stesso. Tutto quello che gli succedeva intorno, di norma gli stava bene perché si fidava dei musicisti che sceglieva. Aveva un grande potere di valorizzazione di coloro che entravano in studio: si registrava, ci si riascoltava e tutti assieme si diceva “ok, qui va bene, qui si può fare meglio”. Tutto naturale, mai una parola di giudizio che io ricordi. In questo era fantastico.

In un’intervista di qualche tempo fa, raccontavi di due occasioni sanremesi nelle quali avevi potuto constatare questa qualità…

Ho suonato nell’Orchestra di Sanremo quando nel 1990 fu messa in piedi da Adriano Aragozzini, che voleva l’orchestra dei professionisti che registravano i dischi. Avevo 33 anni. Nel 1991, Enzo arrivò come ospite. Dico solo che è stato l’unico cantante a salutare sempre l’orchestra, non se ne dimenticò una sola volta, comprese le prove. Nel 1998 invece, feci un ‘guest’ con lui in ‘Quando un musicista ride’, con la direzione d’orchestra di Paolino e io sul palco con lui a suonare il contrabbasso in uno dei pochi episodi vicini al jazz di Sanremo, un brano da big band che chiamava il mio strumento. Anche lì, Enzo fu gentile con i musicisti, che gli riconoscevano l’essere un collega.

A proposito di ‘Quando un musicista ride’: ricordi una grande risata che vi siete fatti?

Ridevamo sempre, le occasioni erano sempre tante, non me ne viene in mente una. Forse quando facevamo gli scherzi a qualcuno, lui esplodeva in una risata contagiosissima. Quando rideva, rideva sul serio, non ridacchiava, come dice in certi suoi testi. Rideva come un pazzo, e se pure l’episodio era di poco conto, diventava subito un’occasione per ridere a quattro ganasce.

Se dovessi dire molto sinteticamente chi era e chi rimane Enzo Jannacci con una canzone, in quale lo ritroveresti?

A me commuovono tanto le sue canzoni milanesi. ‘Ti te se no’, per esempio, è uno dei testi che mi stringono sempre il cuore. Ma le canzoni sono tante. In ‘Milano, 3.6.2005’, l’album che abbiamo registrato insieme, nello studio di casa sua, che è poi lo studio di Paolino, ci sono solo canzoni milanesi rifatte in senso ancora più jazzistico. Dico quelle, ma anche ‘L’Armando’, ‘Giovanni, telegrafista’. Ma ‘Ti te se no’ resta quella che mi colpisce ancora di più. Il lascito di Enzo, quando penso a lui, è quello di una persona generosa, e non solo con i suoi musicisti e con gli amici, ma con tutti. Non dimentichiamoci che una volta andato in pensione ha continuato a fare il medico da volontario, per i poveri, gli immigrati, i barboni di Milano. Ha continuato fino a quando la salute gliel’ha permesso. All’epoca non lo sapeva nessuno, perché Enzo non metteva in piazza le sue azioni. A lui interessava farlo.

Per gentile concessione di naufraghi.ch.


Deeday-UK/Wikipedia
Milano, Cimitero Monumentale