Tra blues, pacifismo e letteratura rock, applausi a Chiasso per il 76enne napoletano, al Cinema Teatro in un concerto da ricordare
"Tutto attiene alla carica vitale, sovversiva, reazionaria, iconoclasta del rock and roll…". È il programma politico del cantautore, annunciato in una Chiasso nella quale tira aria elettorale ma anche una brezza da notti magiche. Grancassa, pedale, armonica e kazoo – one man band come quando a Milano, a inizio anni Settanta, dopo il flop commerciale e radiofonico di ‘Non farti cadere le braccia’, non se lo filava più nessuno – Edoardo Bennato fidelizza il Cinema Teatro con ‘Abbi dubbi’, ‘Sono solo canzonette’, ‘Il gatto e la volpe’ e ‘Venderò’, quattro manifesti dopo i quali un cantautore potrebbe pure suonare cinque ore senza dare fastidio. Il 76enne napoletano ne suonerà quasi due e mezza, da ricordare, durante le quali non solo il rock and roll (‘La torre di Babele’, a inizio concerto) fuga eventuali dubbi sulla grandezza dell’artista (che dice di essere qui per crearli, dubbi sociali e politici, non artistici) ma pure il blues alla Bo Diddley, per esempio ‘Mangiafuoco’. Il tutto è supportato dalla splendida BeBand, le chitarre di Giuseppe Scarpato e Gennaro Porcelli, le tastiere di Raffaele Lopez, il basso di Arduino Lopez, la batteria di Roberto Perrone.
Tra un brano e l’altro, tra un tema e l’altro di chi è un po’ grillo parlante e un po’ predicatore (quanto mai generoso nel soliloquio), lo scontro destra-sinistra che "in Italia è uno scontro nord-sud" apre il lungo capitolo dei conflitti, quelli tra uomini, nazioni, pensieri e industria radiofonica (che non gli passa più i pezzi nuovi). Quanto a dubbi, uno come Bennato è utile a confutare la convinzione che la canzone italiana sia solo ‘’O sole mio’ e ‘Vita spericolata’, mentre la discografia del napoletano, insieme a quella di molti altri, sta più dalle parti della letteratura di quanto si pensi. Anche quella pacifista, che in lui suona come un Dylan con tanta melodia e una manciata di accordi in più: nel 2003 usciva ‘L’uomo occidentale’, l’album di ‘Stop America’ ("Non esagerare troppo con la severità"), che contiene una perla che pare scritta ieri, ‘Non c’è tempo per pensare’, denuncia degli "slogan al posto delle idee" che con i fotogrammi dell’Ucraina in fiamme, sullo schermo alle spalle del cantautore, acquista vent’anni di forza. E così ‘A cosa serve la guerra’, tra i capitoli più alti prodotti dalla collaborazione Edoardo-Eugenio Bennato. Con le immagini dei migranti che affogano, altra forza riacquista ‘Pronti a salpare’, Premio Amnesty international Italia nel 2016.
"Come ti chiami?", chiede Bennato, a un certo punto, al bimbo in prima fila; il bimbo, napoletanamente e calcisticamente sul pezzo, si chiama Diego. "Tu sei l’unico che ancora non mi chiederebbe se sono di destra o di sinistra", sintesi del libero pensiero del Bennato, un così è se vi pare. Torna la guerra con ‘Lo zio fantastico’, da ‘Il paese dei balocchi’, 1992, album che più tardi regalerà pure ‘Magari sì, magari no’, prima che su ‘La calunnia è un venticello’ – tra Rossini e la denuncia sociale, sempre da ‘Pronti a salpare’ – scorrano i volti di Enzo Tortora e Mia Martini, lei a far da ponte con ‘La fata’, poco più avanti, dal capolavoro ‘Burattino senza fili’ (1977). E sul "Tu sei quella che paga di più / Se vuoi volare ti tirano giù", a scorrere sono i volti del femminicidio, Emanuela Orlandi in testa. Poco prima, tra le autoriferite e sontuose ‘Cantautore’ e ‘Rinnegato’, l’unico momento poco coerente della serata, l’idea che "non c’è niente di più diseducativo che il Festival di Sanremo": detto da chi vi è appena stato, il concetto è parso del tutto fine a sé stesso, per quanto se ne possa parlare, altroché. Ma la denuncia fuori luogo se l’era già portata via ‘A Napoli 55 è ’a musica’, quindici minuti tra canzone e assoli, citazioni di Knopfler e Gilmour (l’intero solo di ‘Another Brick in The Wall’) incluse.
Si va verso la fine con ‘La realtà non può essere questa’, i fratelli Bennato del lockdown, e dopo ‘Il rock di Capitan Uncino’ si aspettano i bis: di ‘Non c’è tempo per pensare’, tardiva riscoperta, abbiamo già detto; di ‘Meno male che adesso non c’è Nerone’ (1975, da ‘Io che non sono l’imperatore’) ha detto la storia, quella di uno che la storia l’ha scritta. La storia della canzone, che a volte basta e avanza.
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