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Berlino chiude tra mercato positivo e qualche dubbio

Posizionamento dispersivo delle sale, timidezza del direttore artistico, ma anche un buon numero di film ‘necessari’

Carlo Chatrian
(Keystone)
26 febbraio 2023
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La 73esima edizione della Berlinale si è chiusa senza fuochi d’artificio, con alcune certezze e qualche ombra. Le certezze sono nella vivace ripresa del mercato del cinema, uno dei fondamenti della Berlinale, un mercato che deve cercare di equilibrare il dislivello tra la forte offerta di film e una ben minore domanda del prodotto. Certezza è anche la forte presenza di pubblico pagante: Berlino è una città attenta alle offerte culturali, e il festival, soprattutto al Forum e Panorama si è mostrato capace di rispondere a queste richieste con programmi che hanno fatto emergere giovani idee, attenzione alla società e alla storia collettiva, originalità di linguaggio cinematografico, cosa latente nelle sezioni concorso e fuori concorso.

Le ombre innanzitutto sono legate al posizionamento troppo dispersivo delle sale, sparse davvero per la città e ai suoi confini, situazione che se può andar bene per il grosso pubblico che si localizza, dall’altra toglie ai giornalisti accreditati la possibilità di poter vedere i film e raccontarli, nonostante la bontà dei trasporti pubblici berlinesi. E questo mentre grosse ombre si addensano sul ruolo di Potsdamer Platz l’anno prossimo, un anno che dovrebbe concludere la tormentata direzione di Carlo Chatrian, segnata della pandemia: lui è stato accusato dai suoi detrattori di aver locarnizzato il festival berlinese e noi non siamo d’accordo, perché Chatrian ha tentato di dare a Berlino una nuova strada rispetto alla precedente direzione di Dieter Kosslick, pur senza riuscire a vincere il confronto, nonostante il forte aiuto che gli è venuto da Panorama e Forum. Il fatto è che un direttore deve respirare e far respirare una città intorno al Festival, e in questo Kosslick era magnifico. Chatrian resta ai margini di questo dialogare e la sua timidezza si riflette sul Festival, su 18 film in Concorso mal combinati tra loro, con quelli della Berlinale Special che non sono un chiaro fuori concorso, e se poi pensiamo alla sezione ‘Encounters’ scopriamo che è un altro Forum.

Poco si è parlato in questi giorni di una sezione: ‘Berlinale Series’, dedicata alle serie televisive, un mercato cui già Cannes aveva aperto le porte e che anche Venezia ha messo come prioritario. Otto le serie presentate, tra cui l’italo/britannica ‘The Good Mothers’ di Julian Jarrold e Elisa Amoruso (dramma mafioso) e la più applaudita, la cinese ‘Why Try To Change Me Now’ di Yu Gong, Xiaohui Wang, Dalei Zhang, tratta dal libro di successo ‘Moses on the Plain’ di Xuetao Shuang. La serie è ambientata in una città industriale nel nord-est della Cina all’inizio degli anni Novanta, al Festival si vedono un paio di episodi, abbastanza per capirne il senso.

Questa Berlinale sarà ricordata per film come il fremente ‘Kiss the Future’ di Nenad Cicin-Sain, il film che mostra il dramma di Sarajevo e l’impegno degli U2, per l’emozionante ‘El juicio’ in cui Ulises de la Orden raccoglie i video del processo ai mostri colpevoli dei desaparecidos nell’Argentina degli anni fra i Settanta e gli Ottanta del secolo scorso, per il malinconico ‘Le grand chariot’ di Philippe Garrel che racconta di burattini e di uomini che si credono burattinai. E, ancora, sarà ricordato per la poesia di un magico e necessario film qual’è ‘Sur l’Adamant’ di Nicolas Philibert, ultimo erede di quel gran movimento che fu l’Illuminismo, per la violenza e l’onirico di ‘Disco Boy’ di Giacomo Abruzzese che racconta un uomo, migrante, come tutti gli uomini vivi; per i pensieri filosofici e sull’arte di ‘Art College 1994’, in cui Liu Jian regala al cartone animato la saggezza di uno scritto politico; per il bel bianco e nero di ‘Limbo’, in cui Ivan Sen ci introduce al destino di un detective drogato, o per ‘The Survival Of Kindness’ di Rolf de Heer, che ci regala un ritratto di donna segnata dalla disperante voglia di libertà.

Il Festival sarà ricordato anche per le discussioni sul ‘Seneca’ di Robert Schwentke e John Malkovich, forse il film più originale dell’intera Berlinale. Ma ricordando le sale piene e gli applausi, o i volti segnati dalle lacrime all’uscita di sala, vien voglia di pensare che un Festival, al di là del mercato e dei premi, serve a mostrare cinema; serve poi che il pubblico si prenda nella mente il suo film, quello che gli parla dentro, che gli regala un’emozione, un pensiero, un’idea da portare con sé. È la bellezza di un Festival, della Berlinale.

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