In occasione della proiezione di ‘Klondike’ (domenica 23) a colloquio con Mariano Lugli, program manager di Medici senza frontiere
Ne ha viste di cose, Medici senza frontiere, da quando nel 1971 è nata per curare chi si trova in guerra, o comunque in contesti in cui essere curati rischia di non essere più un diritto. Tanto che quando a febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina, Msf c’era già. Fino a febbraio era anche a Donetsk e Lugansk, in quel Donbass conteso già a partire dal 2014: «C’eravamo già prima, ma è stato in quel momento che le forze filorusse ci hanno espulso dalla parte più orientale della regione, nonostante sapessimo che vi era ancora bisogno dei nostri servizi», spiega Mariano Lugli, program manager dell’organizzazione: «Abbiamo comunque continuato a operare nell’est del Paese, come d’altronde in tutta l’Ucraina. Nel corso degli anni il Donbass si è spopolato, ma sono rimasti molti anziani legati alla loro casa, persone povere che spesso vivono solo dei prodotti del loro orto e di qualche rimessa da figli e nipoti, con malattie croniche – diabete, ipertensione – alle quali ci siamo sforzati di garantire quelle visite e quei medicinali che altrimenti non avrebbero potuto ricevere, oltre a un servizio di trasporto».
Una necessità, quella di assistenza a domicilio, che fa il paio con «il problema della salute mentale, messa a dura prova in un contesto in cui bombardamenti e scene belliche sono stati continui nel corso degli anni». Realtà raccontata bene anche dal film ‘Klondike’, a seguito del quale Lugli dibatterà domenica al Ffdul insieme ad Andrea Ostinelli, giornalista Rsi, e Rino Rocchelli, padre del fotoreporter Andrea, rimasto ucciso proprio in Donbass nel 2014 (l’appuntamento è al cinema Corso alle 17.30).
Dopo l’invasione di febbraio, racconta ancora Lugli, «siamo rimasti operativi in tutto il Paese a partire da 13 sedi, supportando i medici e la popolazione locale». Con uno staff ucraino e internazionale di circa 500 persone «ci siamo impegnati in particolare a fornire sostegno e formazione nell’ambito della chirurgia traumatologica, anche da remoto. Allo stesso tempo, ci sforziamo per rifornire cliniche e ospedali di medicinali e altro materiale».
Cruciale per un’assistenza capillare, specie nelle zone discoste dai grandi centri, è anche l’attività delle cliniche mobili, «équipe multidisciplinari attrezzate per fornire aiuto itinerante in diversi villaggi, dove altrimenti il diritto alle cure sarebbe negato». Pure in questo caso, l’assistenza include il sostegno psicologico a individui spesso gravemente traumatizzati. Msf ha anche adibito alcuni treni ad ambulanze ‘su rotaia’, in modo da spostare dal fronte i feriti in condizioni stabili.
Ora che il fronte torna a muoversi verso est, con le truppe ucraine che riconquistano terreno, c’è però anche il problema delle mine, «che minacciano tanto i bambini quanto gli adulti che, ad esempio, nel tornare a casa loro si rimettono a lavorare nei campi». Inoltre, nota Lugli, «per noi è sempre una sfida garantire la sicurezza del nostro staff, che nel caso degli ucraini si sente anche direttamente coinvolto nel conflitto. Intanto, nelle zone contese vediamo una popolazione sempre più stanca, anziani stufi di andare e venire, che qualunque cosa succeda non vogliono più andarsene, a costo di lasciarsi andare e di rischiare la vita. Sono incontri e immagini strazianti».
La situazione sul campo, in costante mutamento, rende infine difficile pianificare l’attività di Msf, che però, dipendendo perlopiù da donazioni private, può rivedere trimestralmente i suoi piani operativi: «Ci aspettiamo che fino a tutto il 2023 il quadro resterà altamente volatile, ma la nostra organizzazione può permetterci di operare a seconda dei bisogni e delle priorità», conclude Lugli.