Intervista al regista svizzero, in sala con la sua rilettura della vita di Gesù e gli omaggi a Pasolini e Mel Gibson
In una Matera coperta di neve si apre il ‘Nuovo Vangelo’, documentario del regista svizzero Milo Rau che dopo le Giornate degli autori alla Mostra di Venezia e altri festival, tra cui Soletta e Locarno, approda oggi nelle sale ticinesi. È la Maurerische Trauermusik di Mozart a introdurci in questo viaggio trasportandoci in una Basilicata atemporale, nella quale realtà e finzione, presente e passato, quotidiano e mito si fondono e confondono. Del resto, le note di Mozart sono le stesse che chiudevano il ‘Vangelo Secondo Matteo’ di Pier Paolo Pasolini, e dalle prime immagini scorgiamo tra la folla Maia Morgenstern, la madre di Gesù nel film di Mel Gibson ‘La Passione di Cristo’ del 2004. Entrambi i film sono stati girati a Matera, e l’opera di Rau, una delle personalità più interessanti del panorama teatrale contemporaneo, intende dichiaratamente citarli in un racconto corale che però prende vita dalla realtà attuale, che narra un Vangelo diverso e identico, che parla a tutti, che muove e smuove.
Cosa predicherebbe Gesù oggi? Chi sarebbero i suoi discepoli? Rau e la sua squadra sono tornati alle origini e hanno rimesso in scena il Vangelo come Passione di un’intera civiltà. Nel ruolo di Gesù l’attivista politico camerunense Yvan Sagnet, e come discepoli i migranti che lavorano senza documenti in condizioni disastrose nelle coltivazioni di pomodori a due passi dalla città dei sassi. È in questa realtà che si muove ‘Il Nuovo Vangelo’ di Milo Rau, un vangelo di oggi, della dignità umana che insorge dal ghetto e si organizza in manifestazioni e lotte. Sono le vite dei migranti pagati pochissimi euro all’ora, spostati e sfruttati a piacimento dalla mafia, arrivati allo stremo delle forze dopo i viaggi della morte, in un’Europa che non riesce a concedere loro nemmeno il permesso di soggiorno, figuriamoci un’assistenza. Sono questi gli ultimi, i dimenticati di oggi, e Milo Rau con delicatezza ce li presenta e li introduce in questa nuova parabola, dove saranno guidati dal fermo e giusto Yvan Sagnet.
«È un soggetto che mi interessava da anni, e quando la città di Matera mi ha chiesto di fare qualcosa per l’anno come capitale della cultura, ho detto subito: ‘Sì, voglio fare un film su Gesù’» ci racconta Rau. «Ho riunito Maia Morgenstern ed Enrique Irazoqui e li ho convinti a farlo con me! È nata così questa storia ibrida». Irazoqui, deceduto purtroppo lo scorso anno, è l’indimenticabile Cristo di Pasolini che qui impersona Giovanni Battista, ma non solo, aiuta Yvan Sagnet a trovare il modo per recitare, lui che non era un attore professionista ma un accademico.
Il ‘Nuovo Vangelo’ è un omaggio a Pasolini sotto diversi aspetti: «È girato nello stesso luogo, che però è cambiato molto nel tempo, soprattutto per la situazione politica e sociale. Gli ultimi della società non sono più gli italiani oggi, sono africani che lavorano sotto il regime della mafia in maniera illegale. Per questo Gesù è nero». Il regista svizzero riprende inoltre l’idea di un vangelo popolare di Pasolini, con persone che vivevano sul posto come attori, non professionisti. «Anche il linguaggio della camera, la semplicità quasi arcaica di fare le scene. È qualcosa di molto diretto che ho sempre amato nel neorealismo, è la trascendenza del quotidiano, del proletariato. Questo mi ha ispirato molto nel mio lavoro: un cinema popolare. Fare del grande cinema con semplicità. È questa la linea con la tradizione».
E chi se non Vinicio Capossela nelle vesti di cantore di questa epopea? Da ‘Sometimes I Feel Like a Motherless Child’, canzone dell’America profonda in difesa degli schiavi, ne trae una versione indimenticabile ispirata al Sud Italia, “un miscuglio eclettico molto interessante”.
Eclettismo anche nella scelta delle fonti, perché dal neorealismo si passa a Mel Gibson. «Anche per la violenza. In Pasolini non c’è tortura: come fare sentire l’estrema violenza della crocifissione, dell’Impero romano senza mostrarla?Non si poteva parlare dell’immigrazione, di queste persone sfruttate a morte senza mostrarla».
Fondere realtà e mito, questo è quanto fa Milo Rau. Non è la prima volta, pensiamo ad Antigone in Amazzonia. Un attivista politico e dei migranti, tra immagini che documentano la quotidianità e quadri quasi plastici. «A Matera l’unico Gesù possibile era Yvan. In Ticino, o qui in Belgio sarebbe stato ovviamente un altro. Lì era l’unico ad avere il carisma e lo status per fare quello che avrebbe riunito diverse persone, diversi movimenti, con diversi background. Fare solo un film storico non sarebbe stato interessante, né per il cinema né per me. Trovo poi molto importante che ogni film poetico possa cambiare il modo di produrre e distribuire. Noi per esempio non ci siamo rifatti a Netflix ma abbiamo creato una piattaforma con i cinema locali. Abbiamo legato la distribuzione dei film con la distribuzione dei pomodori. È diventata una macchina della dignità, questo è importante da sapere! Sento ogni giorno Yvan Sagnet, è un progetto politico e sociale, non è più solo un film. A oggi lo proiettiamo, oltre che ai Festival o nei cinema in maniera classica, anche nelle chiese occupate, davanti ai sindacalisti, in luoghi diversi insomma. È diventata una macchina di regolarizzazione delle persone: siamo arrivati a quasi mille persone che hanno avuto i permessi di soggiorno, perché hanno avuto un lavoro, nel film, nella produzione di pomodori, e sono adesso cittadini europei».
Tornando al linguaggio filmico, i livelli messi in gioco sono diversi: siamo infatti di fronte a un documentario di denuncia ma anche a una messa in scena teatrale. Una sovrapposizione di linguaggi che al regista serve per raccontare quella che lui chiama ‘la realtà reale’. «Quando guardo una pellicola mi chiedo sempre chi sto vedendo, perché recita questo, qual è la sua motivazione, il suo problema. Nel 90% delle volte non lo sappiamo, ed è qualcosa che a me manca, soprattutto se parliamo di un mito che tutti conoscono, come la Bibbia. Io credo che sia importante mostrare non solo la superficie di una storia ma tutta la macchina che vi sta dietro, come è stata prodotta».
In questo caso, è certo che mettere insieme attivisti e storia biblica potrebbe causare dei conflitti, proprio tra arte e lotta. «Per me era importante mostrarlo. Quando leggi la Bibbia, ma soprattutto il Nuovo Testamento, è una rivolta che implode, che non funziona proprio a causa dei conflitti. Anche in ogni progetto artistico ci sono dei conflitti. Quando ci chiediamo: perché continuiamo a fare cinema, e non piuttosto azioni politiche? Perché produrre immagini anziché trovare un modo per stare bene tutti insieme? Io non voglio discuterlo sul piano accademico, postmoderno, lo voglio fare a livello della produzione, sul piano umano».
E in effetti nell’opera di Milo Rau è dichiarato, vengono filmate scene di scontri tra realtà e finzione che mettono lo spettatore di fronte a diverse domande, tra le quali se sia lecito interferire con la finzione in una realtà così dura. «È molto importante sapere che la vera solidarietà, la vera lotta, è sempre conflittuale. Il problema di Gesù non sono i romani, sono Giuda, Pietro, chi lo vende e chi lo rinnega. Sono i suoi propri discepoli che lo uccidono, alla fine. È molto importante vedere che in ogni movimento sociale, o artistico, c’è sempre il pericolo della rivolta interna dell’implosione. Evidentemente ci sono sempre dei conflitti! Ci si immagina, spesso, che le manifestazioni siano piacevoli, ma non è per niente così! È un grande conflitto, tutto il tempo. Questo è già detto nella Bibbia, io volevo mostrarlo. Come metafora, nella realtà».