laR+ La recensione

Lac, Leonardo Lidi e l’eternità del mito di Fedra

Il regista italiano ne ha portato in scena, nell’ambito del Festival internazionale del teatro, il suo adattamento

(foto LAC studio Pagi)
29 settembre 2021
|

Se già si rischia – mettendosi sulle tracce di Fedra – di perdersi in quella selva non tanto oscura epperò intricatissima della mitologia greca, cercare di rintracciare Phaidra (dal greco antico: splendente e luminosa) quale protagonista della tragedia omonima significa correre il rischio di entrare in un ginepraio da dove solo un filo d’Arianna potrebbe portarci all’agnizione definitiva. Sul personaggio, infatti, hanno ricamato nel corso dei secoli dapprima Euripide (che però ne parla in un’opera intitolata ‘Ippolito incoronato’); poi Seneca, il quale ne ricavò una fabula cothurnata (la tragedia latina di ambientazione e argomento greco); quindi Racine nel XVI secolo e infine Gabriele D’Annunzio, con tanto di “prima” alla Scala di Milano nel 1909: e fu un clamoroso insuccesso!

La nuova, ultima versione di ‘Fedra’ (andata in scena nei giorni scorsi al Lac, che ha pure prodotto lo spettacolo, nell’ambito del festival Fit) è firmata da Leonardo Lidi. La scena iniziale conferma l’interesse del regista per una scenografia il più possibile minimalista, già manifestata nel suo precedente spettacolo visto nel teatro luganese, ‘Lo zoo di vetro’ (2019): solo una panchina rossa su cui siedono due donne che, bardate da un’identica tunica ocra ed entrambe con le fluenti chiome more, ci hanno ricordato le tremende gemelle di Kubick in ‘Shining’. Prende così avvio un racconto che, sebbene non sia chiaro da quale dei multitesti “fedriani” Lidi abbia preso spunto, ricalca la trama originale. Fedra, andata in sposa a Teseo, si innamora di Ippolito, nato dal precedente legame del suo compagno (Antiope, Ippolita, Melanippe o Glauce? Anche qui les avis sont partagés!). Una passione che dunque si avvicina pericolosamente al tabù dell’incesto. Si profila tuttavia un’altra complicazione: Ippolito non nutre particolare interesse per le donne, preferendo alle tresche amorose l’ancor più virile arte della caccia; questo nelle diverse versioni “originali”, mentre Lidi ce lo mostra dedito al tennis. Sola e spaventata, Fedra resta seduta sulla panchina, in attesa di un cenno da parte del suo figliastro o – forse – aspettando il ritorno di Teseo, sceso agli inferi e nel frattempo laggiù rimasto intrappolato. Rimangono viceversa intrappolati gli attori in un parallelepipedo disegnato da un intreccio di lampade neon e che scende lentamente su di loro. Una bella sorpresa per lo spettatore, che però non riesce a vivacizzare la performance, caratterizzata da una sin troppo accentuata staticità – fatte salve le volées di Ippolito. Ci sono alcune perle nei loro dialoghi (“Brucio nel vapore di un cratere del vulcano” riassume bene il tormento che può accompagnare una passione controversa; mentre “Che bella notte incorruttibile”, è un’efficace sinestesia consolatoria), ma si fatica a cogliere il senso di solitudine, quel “parallelismo con quello che stiamo vivendo oggi, con il virus/Cerbero che ci tiene incatenati”, che era altresì uno degli intenti del regista, almeno stando al programma di sala.

Sarà il clamoroso ritorno di Teseo a ravvivare la scena: pur costretto a muoversi negli spazi ristretti del proscenio (una gigantesca saracinesca metallica alle sue spalle gli nega buona parte del palco), l’attore Christian La Rosa ci regala un lungo monologo/flusso di coscienza, concitato quasi come un brano rap! La sua performance sarà infine interrotta da una vecchia canzone dei Camaleonti (“Eternità, spalanca le tue braccia! Io sono qua accanto alla felicità che dorme… Non ti sveglierò, oh no no no: perché tu sorridi. Un bel sogno forse ora c’è dietro le ciglia chiuuuse”, Sanremo 1970).

Lasciamo Fedra a quell’eternità raggiunta grazie al suo mito e agli illustri autori che l’hanno cantata ben prima dei Camaleonti… Ci preme però sottolineare la bravura degli altri interpreti apprezzati dal pubblico del Lac: Maria Pilar Pérez Aspa e Francesca Pollini (le due Fedre), Alessandro Bandini (l’Ippolito tennista) e Marta Malvestiti nel ruolo di Strofe.