laR+ Eurovision Song Contest

Da Lugano a Rotterdam, c'era una volta Eurosong

Breve guida all'ascolto di una festa senza polemiche e assai meno stressante di Sanremo, iniziata il 24 maggio del 1956 in riva al Ceresio...

Le canzoni ancora in gara. Sabato 22 maggio gran finale. Nella foto, Destiny (Malta) - Keystone
20 maggio 2021
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C’erano una volta i Paesi d’Europa impegnati nella ricostruzione post-bellica (la Seconda) con tanta voglia di leggerezza e ritrovata unione. C’era una volta anche l’Unione europea di radiodiffusione, più nota come Ebu (European Broadcasting Union), estensione di un’alleanza tra emittenti radiofoniche del Vecchio Continente nata nel 1925 e perfezionata, con l’arrivo del televisore, nel febbraio del 1950. Nei sogni della neonata Ebu c’è un programma televisivo che riesce a coinvolgere e compattare le singole nazioni; dopo cinque anni, il drammaturgo e giornalista Sergio Pugliese, da buon italiano, suggerisce un concorso musicale ispirato al Festival di Sanremo, manifestazione nata nel 1951 che già aveva rivelato le ampissime potenzialità date dalla gara canora radio (dapprima) e poi videodiffusa. Quello dell’Ebu, per Pugliese, sarebbe potuto essere un Festival dei Fiori con più ambiziose intenzioni paneuropee. Decisivo è l’incontro di Monaco nel 1955 e quello di Roma dello stesso anno, dai quali scaturisce la data di avvio di una manifestazione annuale coloratissima, senza troppi confini e talvolta kitsch (come sono un po’ tutti i concorsi canori, in fondo).

C’era una volta il 24 maggio di 65 anni fa quando a Lugano, nell’ex Teatro Kursaal, oggi Casinò, il presentatore Lohengrin Filipello proclamava ‘Refrain’ della mitica Lys Assia canzone regina del primo European Song Contest, cantata dall’unica interprete veramente svizzera che abbia mai vinto la manifestazione (Céline Dion, che nel 1988 vinse con ‘Ne Partez Pas Sans Moi’, è franco-canadese). Le note storiche della notte luganese narrano di una prima edizione dalla scaletta assai rapida, un’ora e quaranta minuti soltanto, tempi da elezione di Miss Svizzera. A Lugano, nel 1956, le sette nazioni partecipanti si presentano ognuna con due canzoni della durata non superiore a 3 minuti e 30 secondi, tempi stringati da radiofonia degli anni Duemila, accompagnate dall’orchestra diretta da Fernando Paggi, ‘conductor’ anche delle successive edizioni del 1961 e 1964 e, non di meno, direttore della Radio Monte Ceneri Orchestra.

Le note storiche, di quella prima edizione, dicono anche che il concorso era riservato ai soli cantanti solisti (niente band fino agli anni Settanta), che ognuna delle nazioni partecipanti inviò a Lugano due giurati per un voto segreto (attribuibile a chiunque, anche se stessi) e che le graduatorie non furono mai rese pubbliche, alimentando un brusio di fondo sulla regolarità del voto che cinquant’anni di ricerche non hanno cancellato (fonti Ebu). A Lugano, nel 1956, per ovvi motivi di progresso tecnologico, nessun raggio laser, ologramma, schermo digitale, petardi, razzi e razzetti, se non dei sanremesi fiori in piazza al palcoscenico, e tanto verde a incorniciare il tutto.

Da Gjon al Maestro

Maggio 2021, Rotterdam, Paesi Bassi. Spento dalla pandemia nel 2020, Eurosong si è riacceso. Senza bagni di folla, ma è già qualcosa. La Svizzera è in gara con Gjon Muharremaj da Broc, Canton Friburgo. Il nome d’arte Gjon’s Tears gli è stato ispirato da suo padre con le lacrime agli occhi dopo l’ascolto di ‘Can’t Help Falling In Love With You’ di Elvis Presley. La sua ‘Tout l’Univers’ è un crescendo che esplode al secondo minuto di gioco; il videoclip che l’accompagna non è esattamente una botta di vita, ma gli esperti (vedi a destra) dicono che il brano sia quotato. A rappresentare l’Italia, invece, in questo ponte che da Sanremo arriva fino a Rotterdam, saranno i Maneskin. Ospiti della prima semifinale di martedì scorso, se l’esibizione ufficiale sarà quella della clip vista in quell’occasione, il rock di ‘Zitti e buoni’ (“Non sa di che c**** parla” è diventato “Non sa di che cosa parla”) sembra non avere bisogno di effetti speciali, se non una sobria pioggia di fuoco finale.

Nella storia di un concorso che, inevitabilmente, mai potrebbe soppiantare il Festival della canzone italiana, l’Italia dall’Eurovision è andata e venuta più volte, sempre con polemica al seguito. A partire da Gigliola Cinquetti, prima classificata nel 1964 con ‘Non ho l’età’, che nel 1976, anno del referendum sul divorzio, cantava una pericolosa ‘Sì’ (seconda dietro gli Abba di ‘Waterloo’), da cui la decisione della Rai di trasmettere l’evento solo mesi dopo il voto. Nel 1993 fu Enrico Ruggeri (‘Sole d’Europa’) ad accusare la tv di Stato di avere ostacolato la sua vittoria per il non volere organizzare l’edizione successiva. E così sarebbe andata nel 1997, con i Jalisse (‘Fiumi di parole’) vittime dell’oscuramento della trasmissione fino a ora tarda.

Detto dell’altro italico vincitore di Eurosong, Toto Cutugno (‘Insieme: 1992’, spot dell’Europa unita), all’Eurosong sono transitati classici come ‘Piove’ (Domenico Modugno), ‘Occhi di ragazza’ (Gianni Morandi), ‘Gente di mare’ (Umberto Tozzi e Raf). Insomma, tra le polemiche, l’Italia non si è fatta mancare nulla. Nemmeno Franco Battiato, scomparso martedì scorso: nel 1984, il Maestro si presentò in Lussemburgo con Alice sua pupilla e il fido Giusto Pio per eseguire ‘I treni di Tozeur’: la canzone giunse quinta, per essere in seguito apprezzata da mezza Europa (ne esistono versioni in lingua finlandese e olandese) e da Nanni Moretti, che la vorrà per una scena del film ‘La messa è finita’.

L'esperto

‘Una splendida festa arcobaleno’

Voce Rsi imprescindibile e, che si tratti di fiori o stelline gialle su fondo blu, esperto di festival, Ale Bertoglio è una delle memorie ambulanti dell’Eurovision, Eurosong o Eurofestival che dir si voglia. A proposito: come si deve dire? «La denominazione ufficiale è European Song Contest. Eurosong è un’abbreviazione più nostra e italiana. Pare un dispregiativo ma non lo è affatto». Due edizioni sul posto da commentatore e tutte le altre – «Non mi ricordo gli Abba nel ’74 perché avevo sette anni, ma li ho recuperati dopo» – davanti alla tv. Sul posto, «quella del 2013 a Malmö, in Svezia, con Mengoni per l’Italia e per la Svizzera i Takasa (già Hellsarmee, ndr), esercito della salvezza che dovette cambiare nome perché la trasmissione dev’essere, teoricamente, il più apolitica possibile. E poi l’edizione del 2014 a Copenaghen, Emma per l’Italia e Sebalter per noi».

Musical-europeista convinto – «È l’idea di un festival continentale ad avermi fatto innamorare di lui» – Bertoglio descrive così l’Eurosong visto da dentro: «Una festa, innanzitutto, arcobaleno, nel senso che la comunità Lgbt è quella che vive al massimo l’evento. In ogni città viene creata una casa/club dell’Eurovision dove tutti si ritrovano fino a notte fonda in un clima di pace, divertimento, colore e amicizia. Il pubblico è fedelissimo, segue gli appuntamenti da marzo ad aprile per conoscere gli artisti, le canzoni. E poi c’è lo spettacolo, il valore aggiunto, complesso all’avanguardia, costosissimo. La scenografia iperdigitale pensata per ogni interprete è un lavoro lunghissimo». Eurosong è una festa diversa da quella di Sanremo. Senza polemiche, tanto per cominciare: «Non esistono perché Sanremo è l’espressione di una nazione sola che si mette in mostra, e nemmeno in tutte le sue sfaccettature, se non ultimamente. All’Eurovision, invece, che tu sia la nonnina che suona la fisarmonica o il gruppo punk che fa un gran baccano, la porta è sempre aperta». E lo stress è ridotto: «Momenti ufficiali ce ne sono, ma meno che a Sanremo, dove fra giornali, radio e televisioni, c’è il mondo e devi dare retta a tutti…».

Bertoglio il telespettatore: «Una delle primissime canzoni che ricordo, perché l’ascoltavo in macchina con mio papà, è ‘Save Your Kisses For Me’ (Brotherhood Of Man, 1976, ndr). Ricordo ovviamente Céline Dion, perché era la Svizzera che vinceva, anche se speravo che l’anno dopo avrebbero organizzato il festival più vicino di Ginevra. Ricordo Battiato con Alice, e ricordo i Lordi...» (vedi in Ultima).

Tornando a Rotterdam, tornando all’esperto: «Si dice assai bene di Malta, ma io ho apprezzato tantissimo il pezzo della Lituania, una cosa dance-europea di alto livello. La Svizzera è data in zona podio, come l’Italia, che al contrario di chi, per la pandemia, non ha rifatto le selezioni interne, ha invece deciso di recuperare i Maneskin, che sono molto Eurovision, e al Nord quel tipo di rock piace parecchio...».


Alessandro Bertoglio

La prima semifinale

Tira aria maltese

Con ancora negli occhi ‘Eurovision Song Contest - La storia dei Fire Saga’, spassosa commedia con Will Ferrell e Rachel McAdams che ironizza sul concorso e te lo fa amare (così come lo ama lo stesso Ferrell, introdotto dalla moglie svedese alle gioie di Eurosong), scorriamo i primi dieci qualificati alla finale di sabato 22 maggio, dieci brani che sono praticamente dieci videoclip in tempo reale. E guardando ai qualificati, dice bene Bertoglio: la ‘Discoteque’ di The Roop, lituani da Vilnius di giallo canarino vestiti, catalogati pop-rock crossover, è a tutti gli effetti un elegante martello dance. Più tribale è anche il martello della ‘Russian Woman’ Manizha, artista a tutto tondo dal messaggio sociale con testo in caratteri cirillici, ma ritornello comprensibile: “Ogni donna russa deve sapere che è forte abbastanza da rimbalzare contro i muri”. Per il Belgio, gli Hooverphonic dalla 25ennale carriera portano ‘The Wrong Place’, mai troppo lenta, mai troppo veloce (come sempre); per Israele, tra Gerusalemme e l’Etiopia, Eden Alene canta, senza incantare, ‘Set Me Free’. Qualificato è Tusse, gran voce di origini congolesi, che per la Svezia canta l’inno ‘Voices’. Il norvegese e un tantino nerd TIX, angelo caduto (‘Fallen angel’) in mezzo a diavoli danzanti (è il 700esimo dalla morte di Dante, non è affatto fuori luogo), dispone di un ulteriore inno. Per la categoria ‘Sensualità’, il titolo se lo contendono Efendi – che per l’Azerbaigian canta ‘Mata Hari’, in un contesto di lingerie nere che poco aggiungono al titolo, esplicativo di suo – e, staccata di poco, per Cipro, Elena Tsagkrinou, in una performance che sta tra Miley Cyrus e Raffaella Carrà, con annessa carica erotica proveniente da ‘El Diablo’. Premio della critica (anche se a Eurosong non esiste) al bell’electro-folk ucraino dei Go_A in ‘Shum’, storie anch’esse in cirillico qui affidate alla ‘white voice’ di Kateryna Pavlenko, sorta di sposa cadavere in un set che, più che delle foreste dell’Ucraina, sa tanto di Tim Burton.

Fuori, dopo la prima serata, Australia, Macedonia del Nord, Irlanda, Croazia, Romania e Slovenia, la cui preghiera (‘Amen’) non rende merito al bel timbro a tratti maschile di Ana Soklič. Chiudiamo con la decima qualificata, e cioè Malta con Destiny che canta ‘Je me casse’, la dance portata a New Orleans per un fantastico manifesto di girl power e un dito medio alzato alle magre che, è noto, “sono tristi” (cit. Fabio Concato). E se dicono che vincerà Malta, un motivo c’è.