Riprende l’attività del Circolo del cinema con il film d’animazione ‘Les Hirondells del Kaboul’. Intervista all’animatrice Eléa Gobbé-Mévellec
Atiq, un vecchio mujaheddin diventato guardiano della prigione locale dopo aver combattuto per anni contro i sovietici; Mohsen, insegnante disoccupato che assiste impotente alla scomparsa di quello in cui crede; Zunaira, la compagna di Mohsen, che invece continua a credere e amare la libertà. Sono i protagonisti di ‘Les Hirondells del Kaboul’, film d’animazione firmato dalle francesi Zabou Breitman e Eléa Gobbé-Mévellec che hanno adattato l’omonimo romanzo dell’algerino Yasmina Khadra, ambientato nella Kabul occupata dai talebani del 1998. Presentato a Cannes nel 2019, il film sarà proiettato domani al Gran Rex di Locarno per la rassegna “cinema dal mondo” del Circolo del cinema in collaborazione con l’Alliance française. Due le proiezioni in programma, alle 18.30 e alle 20.30 (info e prenotazione raccomandata su www.cclocarno.ch).
Eléa Gobbé-Mévellec, perché ricorrere all’animazione per adattare questo romanzo?
È stata la volontà del primo distributore: quando ha deciso di voler fare un film di questa storia, ha deciso che l’animazione sarebbe stata la forma migliore. Si è rivolto a uno studio d’animazione che ha contattato Zabou Breitman e poi me per la realizzazione grafica. Non è stata quindi un’idea nostra, all’inizio, ma una scelta che abbiamo subito condiviso: per questo film l’animazione è molto appropriata perché gli eventi raccontati sono troppo duri per essere portati realisticamente su schermo, qualsiasi rappresentazione risulterebbe necessariamente falsata. L’animazione mette una distanza, dà allo spettatore la possibilità di ricostruire la storia come abbiamo dovuto fare anche noi, perché non la abbiamo mai vissuta.
Non c’è il rischio di creare troppa distanza, con l’animazione?
Abbiamo cercato di essere il più corretti e precisi possibile. Gli attori non danno semplicemente la voce ai personaggi, ma li incarnano, hanno fatto un lavoro di recitazione che gli animatori hanno ripreso. Anche il suono: la registrazione è avvenuta con gli attori che mangiano, si muovevano e questo anche all’aperto, in modo da ottenere delle registrazioni più realistico, più sporche dell’audio perfetto che si può ottenere in studio.
Abbiamo cercato un equilibrio tra il realismo e la grafica.
Questo realismo riguarda anche i volti dei personaggi?
Sì, è stata una decisione di Zabou: come ha voluto che gli attori interpretassero i personaggi poi animati, così ha voluto che i visi degli attori fossero quelli dei personaggi, ovviamente stilizzati nel disegno, a volte anche solo un tratto, la forma della bocca o degli occhi, però sufficiente a farli assomigliare. Dopotutto un’espressione è espressione di un volto, tutto deve restare insieme.
E per quanto riguarda l’ambiente, la “scenografia”?
C’è molta documentazione su Kabul e sull’Afganistan: il conflitto ha generato molti reportage, per cui non ci è mancato il materiale per caratterizzare i luoghi. Non solo per spazi ed eventi pubblici, ma anche la quotidianità delle persone che vivevano.
C’è stato qualcosa particolarmente difficile da realizzare?
Tutto. Un film d’animazione è molto complicato da realizzare, ogni sequenza richiede un lavoro particolare e unico, perché ogni immagine deve essere non solo ben realizzata, ma anche andare insieme alle altre.
Ci sono ovviamente delle scene tecnicamente più lunghe, più complicate: la lapidazione ad esempio è stata difficile da approcciare, perché non volevamo mostrare la violenza fine a sé stessa e quindi abbiamo dovuto trovare altre soluzioni, basandoci sui personaggi, sui loro sguardi, sulle loro azioni. Una mano che afferra un sasso può essere più forte del mostrare una pietra che colpisce una persona.
In generale la cosa forse più complicata è stata restare semplici: mettere il minimo, quello che ci sembra giusto mettere e togliere tutto il resto, perché mettendo troppo in una scena si rischia di renderla falsa. La prima cosa che ho dovuto dire agli animatori è di non animare troppo.
L’adattamento ha visto coinvolto l’autore del romanzo?
Non direttamente: ha benvoluto il nostro lavoro e ci ha lasciato la libertà di interpretare il suo romanzo, rispettando il fatto che potessimo allontanarcene: anche se non era d’accordo su alcune nostre scelte, era comunque contenta che qualcuno riprendesse la sua storia.
Quali sono le differenze principali tra romanzo e film?
È soprattutto una questione di sguardo: le ricerche che abbiamo fatto, e l’aver realizzato un film d’animazione, ci ha portato a trattare la storia da un punto di vista differente. Zabou ha ripreso la sceneggiatura che inizialmente era stata tratta dal romanzo, riprendendo alcuni elementi, cambiando alcuni personaggi. La nostra protagonista è una disegnatrice, perché una delle imposizioni del regime talebano è stata proibire il disegno. Ma forse la differenza principale è, appunto, una differente visione, una dimensione di speranza che non è centrale nel libro ma che noi abbiamo voluto nel film dopo aver scoperto le storie di chi viveva il regime dei talebani, le tante forme di resistenza.
Il film è pensato per un pubblico occidentale?
È pensato per tutti. Abbiamo adattato un romanzo, un’opera di finzione ambientata nel contesto afgano. Tratta dell’oppressione dei talebani, ma la storia è universale, perché riguarda gli esseri umani, attraversa tutte le culture, ci unisce tutti quanti.
Una storia universale, ma comunque legata a eventi particolari che rimandano a un tema dibattuto come l’islamismo. Questo ha imposto qualche cautela, durante la realizzazione?
Noi ci concentriamo sulle vite dei personaggi, su quello che affrontano. Questo è quello che raccontiamo: non possiamo sapere come le persone recepiranno il nostro racconto, ma al centro ci sono queste vite. Vite, oltretutto, raccontate in origine da Yasmina Khadra, uno scrittore algerino che non è mai stato in Afghanistan, ma che conosce quelle violenze per averle viste nel suo Paese.
Il conflitto è secondario, lo si percepisce attraverso le vite dei personaggi: ‘Le rondini di Kabul’ per me è una storia di amore, di incontro, di come le vite degli altri possono ispirarci. Non è un film sulla violenza, non è un film di denuncia, ma su come possiamo continuare a vivere. La resilienza di fronte a eventi drammatici dimostrata dalla popolazione afgana mi ha insegnato molto ed è questo il messaggio che ho voluto condividere attraverso questo film.