Spettacoli

Bertrand Tavernier, un compagno di viaggio e di cinema

Il critico Ugo Brusaporco ripercorre la carriera del cineasta francese scomparso lo scorso 25 marzo

Tavernier nel 2017 (Keystone)
3 aprile 2021
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Già al suo primo film – ‘L’Horloger de Saint-Paul’ (L’orologiaio di Saint-Paul, 1974), da un romanzo di George Simenon – Bertrand Tavernier, vero maestro di cinema da poco scomparso, presenta una sua precisa identità il suo linguaggio cinematografico affinato da una profonda cultura da cinéphile e un'idea politica/civile del dovere di raccontare con rigore di prezioso artigianato illuminato. Prima aveva partecipato a due film a episodi negli anni Sessanta, e soprattutto aveva scritto un film straordinario come ‘Coplan ouvre le feu à Mexico’ di riccardo Freda.

Eccolo allora con ‘Que la fête commence’ (Che la festa cominci…,1975) un film in costume che ci porta nella Francia del 1719 , Luigi XIV il Re Sole è morto, il popolo ha offeso il feretro di quel re che ha indebitato all’inverosimile la Francia, il suo successore Luigi XV è ancora un bambino e intorno a lui cinico regna il potere dei nobili che mantengono caldo il suo trono. Tavernier non solo riflette criticamente sulla Storia, una storia d’altra parte poco frequentata dalla storiografia ufficiale perché ritenuta senza appeal, ma costringe il pubblico a riflettere sulla rappresentazione artistica della Storia. Se gli anni Sessanta erano stati il trionfo del peplum, non si può dimenticare come in quello stesso 1975 Stanley Kubrick affronti il medesimo secolo con ‘Barry Lyndon’. Tavernier è all'inizio della sua carriera, si porta un peso diverso dall’americano ormai carico di gloria, ma è proprio nel respiro diverso che il francese riesce a raccontare di più la vita, il suo tragico e ridicolo travaglio, i suoi personaggi sono carne che brucia e anche il dolore viene ridicolizzato, perché solo così la rivoluzione nasce. Ma Tavernier ha vissuto anche il ’68 e le le disillusioni rivivono in questo magnifico affresco di umana commedia.

L'anno dopo il regista affronta ancora la storia, ma in chiave più intima, dalla reggia alla campagna, per raccontare la storia di due uomini in ‘Le Juge et l’Assassin’ (Il giudice e l’assassino, 1976) ambientato nella Francia del 1894 e ispirato all'affare Vacher. Qui Philippe Noiret ha la parte del giudice Emile Rousseau chiamato a indagare sul pluriomicida Joseph Bouvier, un ex soldato che dopo aver malamente tentato di uccidere la donna amata e di suicidarsi, uscito dal manicomio non trova di meglio, autoproclamandosi “anarchico di Dio”, che infilare una serie di sadici omicidi le cui vittime erano giovani pastorelle e pastorelli. Bertrand Tavernier, aiutato da un buon gruppo di attori – tra cui un grandioso Michel Galabru nella tragica parte di Bouvier, Isabelle Huppert e Jean-Claude Brialy – riesce a costruire un dramma sociale e civile sul senso di giustizia in una società borghese che lo declina solo alla parola repressione. La scelta del giudice tra manicomio e ghigliottina pesa su ogni spettatore.

Passano anni e film importanti – tra cui lo splendido ‘La mort en direct’ del 1980 con Romy Schneider e Harvey Keitel, e lo spiazzante ‘Coup de torchon’ (Colpo di spugna, 1981) – e nel 1984 Tavernier presenta ‘Un dimanche à la campagne’ (Una domenica in campagna, 1984), premio per la miglior regia a Cannes. «La luce era magnifica. Ma io non volevo copiare la pittura. Volevo ricostituire i primi autochromes dei fratelli Lumière, per allontanarmi dal naturalismo» spiegò all'epoca il regista parlando della fotografia di Bruno de Keyzer, ma il film non è solo la fotografia, è uno splendido cocktail profumato di malinconia. Questa volta la Storia è la vita di ognuno, segnata dall’ombra del tramonto e della morte cui solo gli affetti più intimi possono portare luce. Emozione, pura emozione. Attori splendidi a cominciare da Louis Ducreux stupendo eroe artista di una borghesia che nel 1912 ancora ignora il destino di una guerra mondiale alle porte; l'irresistibile Sabine Azéma nella parte della figlia dell'artista, una donna moderna già vulnerabile nel suo sentirsi libera, e un sempre impeccabile Michel Aumont, il figlio chiamato Gonzague, ma che la moglie ha ribattezzato Edouard, senza che lui protestasse.

Nel 1986 Tavernier presenta con successo ‘Round Midnight’, omaggio al jazz e a quella cultura americana che ha nutrito il suo cammino di iniziazione al cinema. Tre anni dopo arriva uno dei suoi film più significativi e importanti ed è ancora Storia e il peso umano di fronte alla guerra: ‘La vie et rien d’autre’ (La vita e niente altro, 1989). Bertrand Tavernier affronta il destino di chi non ha avuto la fortuna di morire al fronte e di chi aspettava un ritorno. Il titolo del film è ispirato a un verso di Paul Éluard, “l’amour et rien d’autre” e in fondo è il vero senso di un film che è un cammino nel dolore della presa in giro che è la guerra, e che appieno si comprende nel sarcasmo della ricerca di un idolo da innalzare che è il milite ignoto. È il primo film di Tavernier in cui il protagonista usa le parole “ti amo”: non aveva mai affrontato prima una storia d'amore, e naturalmente è un amore impossibile quello che si sviluppa tra i due protagonisti un medico, ancora una volta un grande Philippe Noiret, che ha fatto un'abitudine al dolore e dirige un ufficio, quello chiamato a identificare non solo i tanti reduci accolti negli ospedali spesso smemorati, ma anche i morti e i dispersi dell’assurdo massacro. Vicino a lui due donne: una maestra in cerca di un fidanzato che l’ha presa in giro, l’altra un’altera ricca Irene che cerca di guadagnare al marito morto il trono del milite ignoto, prima di sfidare il medico a dirle quel “vi amo” che non ha mai avuto nelle sue corde. Film magnifico che mostra come a differenza della maggior parte dei cineasti egli preferisca dare il ritmo al film attraverso il montaggio interno all'inquadratura piuttosto che affidarsi a un montaggio di inquadrature, un'idea che lo avvicina a un maestro come Visconti. Questo lo porta a una scelta decisa delle inquadrature, a un rigore come momento essenziale della narrazione.

A questo film fece seguito ‘Daddy Nostalgie’; era il 1990 e il film passò a Cannes senza essere premiato: la giuria guidata da Bernardo Bertolucci assegnò la Palma d'oro per il miglior film a ‘Wild at Heart’ (Cuore selvaggio) di David Lynch. Eppure è il suo film perfetto, toccante, emozionante, sincero, recitato come solo le leggende sanno fare. Qui nel ruolo di un uomo che muore c'è Dirk Bogarde al suo ultimo film e la sua recitazione tocca il sublime, e con lui una Jane Birkin mai così grande. Lui è un padre che non ha mai pensato di esserlo davvero preferendo cocktail, feste, bella vita; lei è una figlia che non ha mai avuto un padre. Lui parla inglese, lei parla francese: non sono una famiglia, non si può parlare di incomunicabilità, forse di una qualche memoria lontana sepolta da reciproci egoismi. Eppure non c’è un legame di sangue ma l’idea di un aver camminato su questa terra e se l’incontro voluto sembra scavare una distanza maggiore, l’essersi incontrati regala un pensarsi. La loro lontananza ora è morte e dolore. Qui Tavernier trova l’essenza della malinconia di essere finiti, e il film canta l’universale bellezza dell’aver vissuto.

La carriera di Bertrand Tavernier è continuata senza posa e senza cali di tono fino al documentario ‘Voyage à travers le cinéma français’ (2016) un omaggio ai suoi maestri e ai suoi compagni di viaggio; intanto ha vinto a Berlino nel 1995 con ‘L’appât’ (L’esca) e girato film importanti anche civilmente come ‘L.627’ (1992) e ‘Capitaine Conan’ (1996). Il suo ultimo lungometraggio è stato il satirico ‘Quai d'Orsay’ nel 2013, ancora una volta sull’inettitudine del potere politico, ma ormai Tavernier era disilluso e le feste erano già tutte finite. Ha lasciato un grande vuoto, quello del suo impegno per un cinema capace di parlare a tutti, fatto con grande sapienza e serietà professionale, e sempre con un preciso impegno civile e sociale che mai ha voluto dire rinuncia allo spettacolo, al grande spettacolo.