Il regista Alan Alpenfelt ci racconta il suo allestimento di 'L’epidemia’ di Agota Kristóf, in scena giovedì e venerdì a Bellinzona
Nel leggere il titolo della nuova produzione del Teatro Sociale di Bellinzona, è difficile non pensare all’attualità, al Covid e alle sofferenze che sta portando questa seconda ondata. Ma ‘L’epidemia’ che sarà in scena domani e venerdì non parla di questo, almeno non direttamente: il testo di Agota Kristóf – tradotto in italiano l’anno scorso da Marco Lodoli per le edizioni Casagrande – parla sì di un morbo misterioso, ma più in generale di fragilità, potere, sentimenti. Così ci spiega il regista Alan Alpenfelt, pronto a portare il testo della scrittrice ungherese ben quattro volte in scena, con due rappresentazioni, alle 18.30 e alle 20.45, sia domani sia venerdì. «Mi dispiace quando uno spettacolo teatrale fatica a vivere, quando l’investimento artistico si esaurisce in una o due rappresentazioni: per noi è interessante che di fronte alle restrizioni del numero di spettatori, una possibile risposta sia: “allora facciamo più rappresentazioni”».
È così importante avere più repliche?
Sì, perché l’attore inizia davvero a entrare in quel processo di dialogo con la regia, dicendo e ridicendo le battute inizia a conoscere a fondo il personaggio, a capire quali sono le relazioni con gli altri personaggi, qual è il suo mondo, quali sono i suoi bisogni. Le prove sono una preparazione, ma è sul palco che il tuo personaggio inizia a vivere e più rappresentazioni ci sono, più diventa credibile, più diventa vero.
‘L’epidemia’: perché portare in scena questo testo?
Una cosa importante da dire è che ci troviamo all’interno del mondo di Agota Kristóf, un mondo che si rapporta molto al nichilismo. C’è, da parte dell'autrice, una certa negatività: immagino per il suo vissuto, per la sua storia personale, non ha un punto di vista con grandi speranze.
In questo testo gioca su grandi ironie: c’è un’epidemia, ma di che epidemia si tratta? C’è un virus e le persone infette sentono il bisogno di suicidarsi, di andare nel bosco e impiccarsi. È una cosa terrificante, ma è anche una metafora di qualcosa di più profondo, qualcosa che appartiene al comportamento umano. Vediamo i personaggi: abbiamo un salvato e una salvata, una dottoressa, due pompieri, un persuasore. Il persuasore è un personaggio ambiguo: convince chi non si è suicidato che ci sono cose belle nella vita, ma stranamente fa anche il contrario, persuade al suicidio, vuole distruggere le cose.
C’è, nel testo, uno strano gioco basato sulla fragilità: se non si è forti, se si cede ai sentimenti, è più facile essere persuasi, essere vittime del potere del persuasore.
Quale sarebbe quindi la metafora dell’epidemia?
Che cosa è davvero il virus: il morbo misterioso o piuttosto l’uomo che – lo ricorderà chi ha visto il primo ‘Matrix’ – sfrutta tutte le risorse fino all’esaurimento, alla distruzione?
Per me, come regista, prendere il testo di Agota Kristóf ha significato lavorare molto sulle relazioni tra i personaggi: quello che esce da questo testo è che c’è un sistema in cui c’è un potere che ha bisogno che gli altri rimangano fragili. Il potere ha bisogno della fragilità e qui potremmo pensare a chi si è arricchito, durante la pandemia di Covid.
Ma questa relazione tra potere e fragilità la troviamo anche tra due persone che si amano: è difficile trovare un equilibrio, nel mondo di Agota Kristóf, e che cosa succede in una relazione quando chi è in una posizione di forza utilizza l’altro?
L’epidemia riguarda quindi le relazioni di potere?
Sì: c’è un’epidemia ma in realtà si parla delle relazioni umane. Per me è molto importante arrivare alle cose concrete e in questo testo si parla molto di amore, di come uno può utilizzare l’altro per i propri fini. È questo che mi interessa mettere in scena.
Che cosa significa portare adesso in scena questo testo, durante una vera pandemia?
Sarò sincero: mi interessa poco parlare del Covid. Anzi, trovo che il teatro non debba affossarsi raccontando quello che sta succedendo, perché lo stiamo già vivendo. Questo testo lo avremmo fatto anche senza la pandemia.
Però viene portato in scena adesso e parla al pubblico di adesso. Pubblico che entrerà in sala portando con sé i vissuti della pandemia.
Certo, il titolo è eclatante e il pubblico inevitabilmente si ritroverà nel testo. Testo che, prima non l’ho detto, è molto divertente, e spero che il pubblico riceverà questo divertimento che cercherò di portare in scena. È un testo grottesco, e l’ironia, soprattutto a teatro, è necessaria per parlare di certe cose.
Tornando al tema dell’attualità: ci sono, nella società di cui parla il testo, delle condizioni che rispecchiano quello che stiamo vivendo adesso: le restrizioni, il fatto di stare male, il fatto che c’è un’epidemia e bisogna stare attenti . Ma io spero che questa corrispondenza diventi un ponte per andare più nell’universale.
Penso che ‘L’epidemia’ sia una bella occasione per farsi due risate e per vedere che dietro quello che stiamo vivendo adesso ci sono dei meccanismi, delle dinamiche e che c’è sempre qualcuno che ne approfitta.
Concluderei con l’allestimento: quello di Agota Kristóf è un testo teatrale, ma ne avremo una lettura scenica.
Sì, una mise en éspace ma sarà comunque “molto spettacolo”. Per gli interpreti, abbiamo Francesca Mazza, una bravissima attrice che ha già lavorato con me su ‘Jackie’; Gabriele Ciavarra che arriva dalla Scuola del Piccolo di Milano, e poi due attori del territorio, Rocco Schira e Margherita Saltamacchia. In quattro interpreteranno otto personaggi: si lavorerà molto sullo sdoppiamento. Il testo è integrale, con un piccolo lavoro sulla drammaturgia ma appunto perché ho tanti personaggi e pochi attori.
Sono molto contento di questo lavoro: dopo il master in regia e ‘Jackie’ mi ero un po’ allontanato dal teatro, avevo bisogno di prendere una pausa per trovare un modo più tranquillo di fare teatro. Sono contento di ripartire con una mise en éspace, con un testo di Agota Kristóf, con la grande libertà che mi ha dato il Sociale. Lo spettacolo è paradossalmente leggero, divertente ma anche molto profondo. E parla d’amore: mi piace che uno possa dire: “Ma come è possibile che un testo che si chiama ‘L’epidemia’ si parli d’amore?”.