Applausi per il nuovo spettacolo di Margherita Saltamacchia dedicato a Mary Shelley e alla sua creatura
La scena è nuda: un tavolino, una sedia e un microfono anni 50, di quelli grandi e lucenti, sulla sinistra; un amplificatore per la chitarra elettrica sulla destra. E il fumo, che avvolge il palco, si estende fino alla platea e dà sostanza alle luci. In fondo basta poco, per raccontare la storia di ‘Frankenstein’; del resto tutti conosciamo il mostro che si ribella al suo creatore, lo scienziato che ha osato trasformare la morte in vita sovvertendo l’ordine naturale, o divino, delle cose, per cui basta anche solo accennare alle fattezze del mostro, all’incontro con il suo creatore e si capisce tutto. Ma Margherita Saltamacchia con il suo ‘Frankenstein, autoritratto d’autrice’ – produzione del Teatro Sociale di Bellinzona che ha debuttato giovedì scorso a Bellinzona – non ha voluto limitarsi a portare in scena quello che oggi è un classico dell’orrore. Che cosa ha fatto quindi? Innanzitutto è voluta tornare al testo originale di Mary Shelley, quel romanzo gotico che, tra adattamenti cinematografici e citazioni, in pochi leggono o rileggono e che, uscendo dal teatro, a molti è probabilmente venuta voglia di cercare in libreria.
L’essenzialità della scena ha appunto questa funzione: dare spazio al testo e alla sua forza. Già questo basterebbe per avere uno spettacolo interessante, per quanto col rischio di finire a fare una classica lettura scenica. Ma Margherita Saltamacchia è voluta andare oltre, intrecciando le pagine del romanzo con quelle dei diari e della prefazione che, diversi anni dopo la prima edizione anonima, scrisse nel 1831. Il risultato è una rilettura molto interessante e personale di ‘Frankenstein’, con le parole dell’autrice che completano quelle di Victor Frankenstein, in un dialogo che si trasfigura in monologo inframezzato dalle parole della Creatura, voci diverse che arrivano al pubblico attraverso un piccolo distorsore. L’orrore non è più il tema principale della storia, ma diventa quasi basso continuo di una narrazione ben più articolata e complessa. Mary Shelley ci parla di desiderio di conoscenza che diventa desiderio di creazione, della sofferenza e dell’abbandono che si accompagna a ogni processo creativo, della solitudine che riguarda sia la Creatura, unico essere vivente a non avere una compagna, una Eva che lo affianchi e lo completi, sia il creatore Victor Frankenstein che dopo aver fatto quello che ha fatto vive isolato. Sia Mary Shelley, madre sopravvissuta a tutti i suoi figli, come ci viene ricordato proprio in conclusione di spettacolo.
Ora, come portare in scena tutto questo, senza annoiare il pubblico che, detta in maniera un po’ brutale, si ritrova sul palco una persona seduta che per un’ora legge da un grande quaderno rilegato? Gli elementi principali li abbiamo accennati: una scena essenziale, fatta soprattutto di luci che ben sottolineano i vari momenti, un grande microfono che talvolta nasconde il viso di Margherita Saltamacchia aumentando l’effetto di “incarnazione” dei vari personaggi, le voci distorte e le musiche di Christian Zatta (suggestive, per quanto talvolta un po’ fuori tema, ad esempio al momento dell’incontro tra Creatura e creatore). Un allestimento curato nei minimi dettagli e capace, grazie anche al lavoro della ‘dramaturg’ Cristina Galbiati, di conquistare il pubblico e portarlo ad amare Frankenstein come lo hanno amato Mary Shelley e Margherita Saltamacchia.