Marco Tullio Giordana, a Lugano per l’anteprima di 'Nome di donna', racconta come è nato il suo film sulle molestie sessuali
La giovane Nina, perso il lavoro di restauratrice e decisa a non dipendere economicamente dal compagno, si trasferisce in un piccolo paese della Lombardia per lavorare, come inserviente, in una residenza per ricchi anziani. Tutto sembra andare bene, finché un giorno non viene convocata, dopo l’orario di lavoro, nell’ufficio del direttore Marco Maria Torri… Che cosa sia accaduto in quell’ufficio, e il tormentato percorso che Nina si ritrova ad affrontare per cercare di ottenere giustizia sfidando l’ostilità delle colleghe e la connivenza delle autorità giudiziarie e religiose, è facile indovinarlo dopo mesi di cronache sul caso Weinstein e di accuse a celebrità per molestie sessuali. Eppure ‘Nome di donna’ di Marco Tullio Giordana – dall’8 marzo nei cinema – è un progetto partito anni fa e, ci spiega il regista venuto a Lugano per presentare la pellicola in anteprima, «quando è scoppiato lo scandalo il film era già montato e finito».
No, perché non c’era niente da cambiare: questo problema esiste da molto prima dello scandalo hollywoodiano, esista da centinaia, migliaia di anni. E nel corso dei secoli, purtroppo, non è cambiato. Tranne, in parte, verso la fine degli anni Sessanta, con i vari movimenti legati al ’68 avevano portato le donne, e le loro motivazioni, in primo piano. Un’enorme evoluzione, se pensiamo che in Italia, fino agli anni Quaranta, le donne non potevano votare (e in Svizzera fino al 1971, ndr).
Poi però si è tornati indietro: negli ultimi trenta-quarant’anni assistiamo a una ripresa di quelle figure archetipiche femminili dell’amante e puttana oppure della moglie e madre fedele e devota… come se non ci fossero stati i movimenti di liberazione femminile. È una cosa che mi ha sempre fatto impazzire: ma come, invece di andare avanti torniamo indietro?
Non c’è un solo modo di stare al mondo come non c’è un solo modo di reagire alle molestie, o di subirle. Ci sono tanti modi di raccontarsi la realtà: alle volte per accettare l’umiliazione ci vediamo costretti ad abbellire le violenze che subiamo, ci vuole coraggio verso se stessi per ammettere un ruolo così antipatico come quello della vittima, prendendo la decisione di ribellarsi ritrovandosi soli, perché la solidarietà scatta verso il forte, mai verso il debole…
Il film, proprio perché l’ha scritto una donna, Cristiana Mainardi, ha tantissime sfumature, racconta anche le minuzie di tutto quello che succede in una donna che viene così ferita. Oltre alla condanna evidente e indiscutibile, per chiunque veda il film, dei comportamenti di questi uomini che pensano di poter essere i padroni della vita e della sessualità altrui.
La ringrazio di dire questo, perché io detesto i moralisti: quando uno si mette a pontificare, a fare la morale agli altri, spesso ha qualcosa da nascondere…
Io sono un narratore, come i menestrelli medievali racconto una storia in cui poteva esserci un problema, una sofferenza. Il teatro e poi il cinema sono sempre stati questo: un raccontare – allegramente o drammaticamente o le due cose insieme – qualcosa che succede: è poi lo spettatore a formarsi un giudizio. Cosa sarebbe il teatro, e anche il cinema, se fosse un insieme di proclami e di precetti? Non sarebbe teatro, ma le tavole della legge, il codice penale: qualcosa di importantissimo ma che non si incollerebbe alla sensibilità e alle esperienze degli spettatori.
Per me non esiste una gerarchia: non c’è il protagonista senza rivali che ne minaccino la bravura. Per me tutti i ruoli sono importantissimi e dedico un sacco di tempo a costruire il cast: a volte perdo dei mesi per cercare uno che deve dire solo quattro battute!
Quando faccio i provini mi piacciono soprattutto due cose: scoprire nuovi talenti e utilizzare gli attori del teatro. Perché amo molto il teatro, amo molto la professione dell’attore che è quasi divina: un attore deve incarnare molte anime, deve possedere la capacità di sentire e di esprimere cose diverse. E questa è la materia del teatro, perché tante volte nel cinema comanda la fretta, ci si limita a dire “qui fai così”, rinunciando ai contributi che potrebbe dare un attore che ha letto, riletto e provato quella scena… A me piace lavorare così: sul set non dico mai “fate così”, ma “fatemi sentire”, e dopo che mi hanno fatto sentire capisco dove devo correggere.
È un discorso che riguarda la rappresentazione della violenza sul quale voglio essere molto chiaro perché alle volte c’è un certo compiacimento nel rappresentarla, appunto, ai limiti del voyeurismo. Ma raccontata così anziché diventare qualcosa di repellente diventa seducente, da imitare, di bello. Usare così il cinema per me è una aberrazione.
Ricordo, da ragazzino, di essere sempre rimasto più spaventato da quello che il film mi faceva immaginare, piuttosto che da quello che il film mi faceva vedere: l’ellisse, il non visto nel quale ognuno mette le proprie paure.
In questo caso, si trattava di mostrare non una violenza fisica, ma una violenza psicologica, di mostrare l’umiliazione. Per far sì che lo spettatore, uomo o donna che sia, si senta vicino a lei, non a lui. Tante volte, al cinema di fronte a delle scene di violenza vedo che il regista sta cercando di farti parteggiare per uno dei due: no, io voglio che lo spettatore veda innanzitutto l’odiosità della violenza.