Il podcast ‘Indagini’ e il libro di Stefano Nazzi ripensano la cronaca nera con rispetto e umanità, liberandola dal sensazionalismo
Una voce gentile e pacata, d’un uomo che di storie sanguinose ne ha viste parecchie e in tanti anni ha imparato a raccontarle con garbo, senza mai pensare che le sue parole potessero essere più importanti dei fatti. Un’attenzione scrupolosa ai destini che in quelle storie sono finiti: vittime, carnefici, semplici sospettati. La voglia di riprendere i grandi episodi della ‘nera’ senza voyeurismi e svolazzi, ma puntando piuttosto lo sguardo sul modo in cui procure, media e cittadini diventano ciascuno a suo modo parte del racconto, finendo per influenzarsi a vicenda, come pianeti con la loro forza di marea. A semplificare molto sta tutta qui, la forza inedita e dirompente di ‘Indagini’, il podcast del Post che Stefano Nazzi dedica ai delitti più clamorosi avvenuti in Italia. Un viaggio talora inquietante, ma sempre umano e mai sinistro o compiaciuto, in luoghi spesso sconosciuti prima che si accendessero microfoni e telecamere: Cogne, Garlasco, Erba, Avetrana, Brembate di Sopra. Ma anche in centri più noti come Roma, Verona, Parma. Toponimi che a un certo punto sono diventati segnaposto per evocare ragazzine morte ammazzate, riti satanici, stragi familiari, bombaroli megalomani, ma anche sensazionalismo e sciacallaggio. Nazzi invece riporta il delitto al centro, smussa i toni, pesa le parole e racconta. Così bene da avere appena vinto il premio ‘Il Pod’ nella categoria podcast dell’anno, peraltro proprio ora che ne è uscito un eccezionale spinoff editoriale, ‘Il volto del male’ (Mondadori). Ne parliamo direttamente con lui.
“Il male non è spettacolare ma umano, e dorme nel nostro letto e mangia al nostro tavolo”. Il suo libro si apre citando il poeta inglese novecentesco Wystan Hugh Auden. Perché questa scelta?
Perché secondo me occorre prendere atto del fatto che il male fa parte della nostra vita, che non si può scacciare pensando che non ci riguardi, che “a me non succederà mai”. Come tanti altri aspetti dell’esistenza lo possiamo trovare un po’ ovunque: al piano di sopra, nella nostra stessa strada, in paese. Chi commette atti feroci è comunque un essere umano. Questa semplice constatazione è importante per evitare la mostrificazione, ma anche per non liquidare ogni delitto come follia, come raptus. Non è così: spesso le persone fanno male al prossimo per raggiungere i loro obiettivi, foss’anche solo quello di mostrarsi più forti, in un contesto di totale mancanza d’empatia.
La cronaca nera in tutto il suo turgore rappresenta – insieme al gossip politico – l’asse portante dell’informazione italiana, al punto che se un alieno dovesse farsi un’idea del Paese guardando solo telegiornali e trasmissioni del pomeriggio, penserebbe probabilmente di starne ben alla larga. Che bisogno c’era di un altro ‘prodotto di nera’?
Beh, non sta a me dire se ce ne fosse bisogno… C’era comunque la voglia di tornare su quelle cronache in modo meno pruriginoso, meno morboso, mettendo in fila i fatti come sono avvenuti e levando tutte le incrostazioni sensazionalistiche, da serie televisiva. Un approccio talvolta anche più crudo, ma più sobrio, orientato pure a recuperare fatti trascurati dalla ricerca dell’impatto emotivo a tutti i costi.
In molte storie, è disarmante rivivere il comportamento dei media: notizie inventate, interviste a pagamento, tivù del dolore, formule dozzinali ripetute fino allo sfinimento quali “la villetta degli orrori”, “l’angelo biondo”, “il biondino dagli occhi di ghiaccio”. Perché succede? Basterebbero leggi più severe – come quelle vigenti in Svizzera – per evitare di sbattere il mostro in prima pagina?
Le leggi in realtà ci sono anche in Italia, così come ci sono i codici deontologici, e tanti passi avanti sono stati fatti rispetto a qualche decennio fa. Però la spettacolarizzazione c’è ancora, e il problema, più che nei codici, sta nel fatto che molti media – stampa compresa – non si pongono certi limiti: corrono dietro alla televisione ‘del pomeriggio’, quella che ha trasformato i luoghi del delitto a Cogne o Garlasco in set televisivi, i protagonisti delle storie in personaggi da fiction, senza grande attenzione alla verifica dei fatti e alle vite delle persone. Va anche ricordato che non si tratta di un fenomeno solo italiano: parliamo spesso del grande giornalismo anglosassone, ma dimentichiamo che certi tabloid sono peggio di quanto si trovi in Italia, per non parlare di alcune trasmissioni americane.
Ad alimentare la fabbrica del dolore ci sono anche le fughe di notizie da caserme e procure: nel recente caso di Senago – l’uccisione, nel Milanese, di una ragazza incinta da parte del suo ex – alle redazioni sono arrivati perfino i messaggini che i due si scambiavano. Com’è possibile?
Più ancora che dai magistrati, vediamo fuoriuscire certe informazioni da alcuni esponenti della polizia giudiziaria, da avvocati e funzionari di tribunale. Su quegli elementi – che peraltro non vengono normalmente verificati – certi media costruiscono tutta una narrazione parallela, scavalcando indagini e processi. La legge Cartabia (una recente riforma che prende il nome dalla ministra della Giustizia del governo Draghi, ndr) ha cercato di tamponare le fughe autorizzando solo i procuratori capi a rilasciare dichiarazioni, e solo tramite comunicati e conferenze stampa. Ma non mi pare che stia funzionando granché.
I casi esplorati nel libro e nel podcast evidenziano anche altri problemi di natura investigativa e giudiziaria: indagini improvvisate, prove manomesse, processi che a volte paiono pensati più per le telecamere che per accertare la verità. Che fare?
Per quanto riguarda le indagini, credo che si tratti di un problema abbastanza superato: quando iniziarono a essere sempre più scientifiche, si manifestò in effetti una mancanza di preparazione che generò notevoli errori; ora, invece, i reparti scientifici di polizia e carabinieri sono tra i migliori che ci siano. Quanto ai processi, il problema è spesso la vanità umana: anche tra i magistrati c’è qualcuno – una minoranza – che ama sentirsi al centro della scena e diventa parte del meccanismo mediatico, e non so se possa bastare una legge a cambiare le cose. D’altronde, dobbiamo ancora una volta considerare il contesto: un magistrato non dovrebbe mai diventare un personaggio televisivo e dovrebbe respingere tutti i condizionamenti, ma la pressione da parte dei giornalisti e dell’opinione pubblica in certi casi si rivela enorme.
Anche familiari e amici delle vittime diventano spesso – che lo vogliano o meno – protagonisti di questo Grand Guignol: basti pensare, sempre a proposito di Senago, alla madre del presunto colpevole quando dichiara in televisione che suo figlio è un mostro, mentre la telecamera indugia in un primissimo piano sui suoi occhi gonfi di lacrime.
Succede spesso, purtroppo, Un esempio da manuale della trasformazione di chi è coinvolto in delitti in star mediatica è quello di Avetrana (l’uccisione di una quindicenne nel 2010 in provincia di Taranto, ndr): i media si lanciarono sulla figura dello “zio Michele”, chiamandolo proprio così, come se si trattasse di un personaggio televisivo e non di un sospettato di omicidio. Come in molti altri casi, si è ampiamente superato il confine tra cronaca e spettacolo.
Sempre a proposito di vanità, anche la politica finisce spesso per mettersi in mezzo. “Individuato l’assassino di Yara Gambirasio”: così recitava il tweet del 2011 che un ministro dell’Interno, Angelino Alfano, dedicò all’arresto per l’uccisione della tredicenne, il cui corpo fu trovato abbandonato in un campo del bergamasco dopo mesi di ricerche. Perché?
Per intestarsi meriti che non si hanno, a costo di mettere a rischio le indagini e di violare qualsiasi norma, anche se un avvocato di mestiere come Alfano dovrebbe sapere che una persona è innocente fino al terzo grado di giudizio. Ma è una storia vecchia come il mondo: la politica che cerca di mettersi in mostra imboccando scorciatoie che garantiscano la massima visibilità.
Lei ricorda spesso che la verità giudiziaria è solo un aspetto di una vicenda di cronaca nera. In che senso?
La verità giudiziaria è quella che conta e alla quale dobbiamo attenerci. Ci sono però vicende umane che proseguono oltre le sentenze, storie che cerco di raccontare soprattutto nel libro: cosa succede dopo la sentenza? Che percorso fanno i condannati? Chi si pente? Chi invece attraversa tutto come se fosse solo uscito a comprare le sigarette? Anche questo è un aspetto che la cronaca nera e giudiziaria dovrebbe cercare di trattare con attenzione e cura.
C’è un caso che le è rimasto ‘attaccato’ più di altri?
Forse quello delle cosiddette bestie di Satana (feroci violenze di gruppo perpetrate da giovani e giovanissimi tra la fine degli anni Novanta e il 2004 in provincia di Varese, con almeno quattro vittime accertate, ndr). Non capiremo mai perché dei ragazzi, degli amici d’infanzia, si mettano a uccidersi tra di loro senza alcuna motivazione apparente. Si tentò di fornire la spiegazione del satanismo, ma le sedute spiritiche del gruppo erano una cosa da ragazzini. Erano ‘semplicemente’ persone che bevevano e si facevano di tutto, che a un certo punto si misero in testa di fare qualcosa di così eccitante da cambiargli la vita, senza pentimenti e nella convinzione che non vi sarebbe stata alcuna conseguenza. Nel frattempo il padre della prima vittima continuò per anni, da solo e in silenzio, a cercare in tutta Europa il figlio scomparso, tenendo di fatto insieme il filo delle indagini con enorme forza e determinazione. Più in generale, le storie che trovo più impressionanti sono quelle che non nascono da un progetto, per quanto malvagio.
Di solito nel suo podcast si parla di fatti di sangue. C’è però una notevole eccezione: il caso di Enzo Tortora, popolare presentatore televisivo arrestato il 17 giugno di quarant’anni fa con l’accusa, poi rivelatasi clamorosamente infondata, di essere complice della camorra. Come mai questa scelta?
Intanto, perché quando fu arrestato avevo 22 anni e quella vicenda mi impressionò tantissimo. E poi perché è una storia da non dimenticare mai, non un semplice errore giudiziario, ma una follia totale: un caso nato da due pentiti che parlavano a vanvera, e chiunque non fosse accecato da vanità come i responsabili dell’inchiesta lo avrebbe capito. Infine, c’è anche qui l’aspetto umano: Tortora – il cui giornalismo ‘bazar’ all’epoca non ne faceva certo uno dei miei personaggi preferiti – si rivelò poi una persona forte e coraggiosa, che mantenne sempre la sua dignità, e una volta scagionato trascorse i pochi anni che gli restavano da vivere dimostrando il suo impegno per i carcerati e per la giustizia.