A colloquio con Leopoldina Fortunati, ospite della conferenza ‘Lavoro invisibile - Riproduzione sociale e lotte femministe’ di Io l'8 (oggi alle 20)
Cosa significa “lavoro invisibile”? Fra i capisaldi della contestazione femminista, il concetto descrive tutte quelle mansioni – dai lavori domestici al lavoro di riproduzione e cura – che a livello sociale non sono riconosciute come lavoro vero e proprio e perciò non hanno diritti, né reddito e né la giusta valorizzazione. Soprattutto, il lavoro invisibile ha conseguenze rilevanti sulla possibilità di molte donne di autodeterminarsi e compiere scelte circa la propria esistenza e i propri progetti di vita.
Si tratta di una questione storicizzata: «Agli inizi degli anni Settanta, all’interno del movimento femminista è partita un’analisi sul lavoro domestico. Un’indagine compiuta con difficoltà perché non è mai stato normato come qualunque altra professione salariata, che oltre ai doveri ha anche dei diritti». Leopoldina Fortunati parte da una contestualizzazione storica che racconta che, da oltre cinquant’anni, il lavoro domestico (invisibile) delle donne è un tema sociale.
In occasione dello sciopero femminista del prossimo 14 giugno, il Collettivo Io l’8 ogni giorno ha invitato le docenti universitarie italiane Leopoldina Fortunati e Silvia Federici quali relatrici della conferenza ‘Lavoro invisibile - Riproduzione sociale e lotte femministe’ che si svolgerà questa sera (alle 20) nella sala E del Palazzo dei Congressi a Lugano. Federici (che parteciperà all’incontro in collegamento video) è teorica e attivista femminista-marxista, nominata professoressa emerita all’Università Hofstra, nello Stato di New York; è autrice di numerosi saggi, due titoli su tutti: ‘Il punto zero della rivoluzione’ (2012) e ‘Calibano e la strega’ (2004). Anche Leopoldina Fortunati – sociologa, teorica e attivista femminista marxista – è autrice di vari volumi, fra i suoi titoli si segnala ‘L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operaie e capitale’ (1981), pubblicazione che – fra anni Settanta e Ottanta – ha contribuito alla tradizione del materialismo femminista. Con la professoressa ordinaria di Sociologia della comunicazione e della cultura all’Università di Udine, abbiamo scambiato due chiacchiere su quello che si intende lavoro invisibile, che è appannaggio quasi esclusivo delle donne.
Lavare, stirare, pulire, cucinare, fare figli, crescerli ed educarli, accudire e occuparsi dei diversi componenti della famiglia… la definizione del lavoro domestico e di cura è molto complessa, perché è interiorizzata e normalizzata a tal punto, spiega la nostra interlocutrice, che è molto difficile da individuare e definire. Il termine “dovere”, relativo a tutto quanto viene fatto in casa dalle donne, è significativo ed è stato innestato nella mentalità di ciascuno di noi in anni e anni, anzi secoli di cultura patriarcale, tanto che persino alle donne è difficile riconoscerlo. Al di là dell’analisi sociolinguistica – che la dice lunga perché le parole sono le idee – e dell’importanza di scardinare il lessico usato per far riferimento al lavoro domestico e di cura (come punto di partenza per una presa di coscienza); vanno determinati innanzitutto i suoi confini, perché varie sono le sue modalità: «Materiali e immateriali – distingue Fortunati – come stirare, pulire, cucinare fra le prime; educare i figli e accudire, fra le seconde». Quindi che valore dare ai compiti immateriali che tirano in ballo emozioni, comunicazione, educazione, sentimenti? E come stabilire quantitativamente il tempo dedicatovi? «Ancora oggi è molto difficile, perché è invisibile alle donne stesse. Ed è un lavoro a ciclo continuo, soprattutto quando si hanno figli». In più, aggiunge la professoressa, «nonostante il grande malinteso degli anni Settanta che vedeva nel lavoro retribuito un motivo di emancipazione femminile, oggi come oggi, buona parte delle donne si ritrova a fare due lavori», quello dentro e fuori casa.
In diversi contesti, sebbene non ci sia consapevolezza politica di ciò che si fa fra le mura di casa, a livello statistico emergono «comportamenti di massa molto forti ed eloquenti che mostrano come il lavoro invisibile non sia più così invisibile e sopportato»: basti pensare alla decisione (sacrosanta) di non avere figli o metterne al mondo solo uno, che si traduce in un tasso negativo della natalità, l’aumento di separazioni e divorzi, dato inversamente proporzionale a quello dei matrimoni. «Si tratta di comportamenti spontanei di rifiuto del lavoro domestico che – a detta di Fortunati – devono essere portati nello spazio pubblico e fatti diventare un problema sociale (ed è compito di iniziative come lo sciopero delle donne), affinché la politica non ignori la questione e faccia scelte adeguate, per esempio nell’organizzazione delle professioni, in buona parte coniugata al maschile, che spesso determina le scelte di molte donne di non avere figli o di lasciare il proprio mestiere per averne».
Chiudiamo citando il brano ‘Siamo tante siamo belle’ tratto dal Canzoniere femminista del 1977 che, nonostante gli anni sulle spalle, mette in rima i concetti della rivendicazione delle donne: “Basta figli da sfruttare/ e vivere solo per invecchiare,/ basta miseria e schiavitù/ gratis non lavoreremo più!/ Non ci serve più lavoro/ ma tempo e soldi anche per noi/ di tutti siamo le più sfruttate/ adesso è ora che ci paghiate!”.
Informazioni: www.iolotto.ch; www.leopoldinafortunati.it.