Lorenzo Tomasin, professore all’Università di Losanna e ospite, venerdì 18 febbraio, del Club Plinio Verda per discutere del futuro della lingua italiana
Globalizzazione e lingua italiana: il tema dell’incontro che il Club Plinio Verda organizza – venerdì 18 febbraio alle 18 alla Biblioteca cantonale di Locarno – evoca subito l’immagine di un assedio linguistico con anglicismi, social media e politicamente corretto minacciare la sopravvivenza dell’italiano. Un’immagine che certamente testimonia una preoccupazione diffusa, ma che non cattura appieno la realtà come ci ha spiegato Lorenzo Tomasin, professore di Storia della lingua italiana e di Filologia romanza all’Università di Losanna che venerdì discuterà del tema con il linguista Alessio Petralli.
Professor Tomasin, la lingua italiana ha storicamente mostrato una certa stabilità: dopo sette secoli leggiamo abbastanza facilmente Dante, mentre un testo francese o uno inglese anche più recenti mettono in difficoltà un madrelingua…
È vero solo in parte. La lingua letteraria italiana, soprattutto quella dei poeti, è stata molto stabile nel tempo perché legata a modelli antichi. Una circostanza che a un certo punto è stata anche percepita come un limite dell’italiano. Tuttavia non mi sentirei di dire che l’italiano sia sempre rimasto fermo. E di conseguenza non mi sento neanche di dire che negli ultimi anni abbia iniziato a correre.
L’impressione è però quella di una lingua in rapido cambiamento, soprattutto sotto l’influenza dell’inglese.
Ma è un’impressione che si è ripresentata a più riprese nella storia dell’italiano. È già capitato che gli osservatori, cioè le persone che parlano italiano, avessero l’impressione che la loro lingua si fosse messa a correre e soprattutto che si importassero troppo rapidamente e disordinatamente elementi stranieri: è ad esempio accaduto durante il Settecento quando la pressione del francese è stata sentita da molti come un rischio per la sopravvivenza dell’identità e della riconoscibilità dell’italiano. Trecento anni dopo possiamo dire che il mutamento non fu così drammatico come sembrava, ma il mutamento ci fu come c’è sempre stato: l’italiano si è sempre mosso, anche se magari in alcuni settori sì e in altri no.
Come il caso, al quale abbiamo già accennato, della lingua poetica.
Sì ma attenzione: il motivo per cui l’italiano di Dante ci sembra così simile al nostro è che sono rimasti molto stabili alcuni aspetti della lingua come la fonetica e la morfologia. Tuttavia se quella che potremmo definire “la grammatica” è rimasta stabile, molte parole hanno cambiato significato. Noi non ce ne rendiamo conto perché le vediamo uguali e ci suonano familiari, ma ad esempio ai tempi di Dante ‘ragionare’ significava qualcosa di simile al nostro ‘chiacchierare’.
Non stiamo quindi assistendo a un’accelerazione nel cambiamento dell’italiano?
Secondo me no: l’italiano sta cambiando come è sempre cambiato, anche se con modalità differenti rispetto al Cinquecento o al Settecento, perché non esistono ripetizioni nella vita delle lingue.
Oggi la lingua di riferimento non è più il francese ma l’inglese (che a sua volta è stato fortemente influenzato dal francese), ma immagino non sia solo questo. Che cosa caratterizza la fase attuale?
Innanzitutto una maggiore orizzontalità e condivisione della lingua tra i parlanti: nella comunità di chi oggi usa l’italiano si fatica a rintracciare una gerarchia con dei parlanti più autorevoli e capaci di influenzare gli altri e una base che invece partecipa solo passivamente al mutamento della lingua. Questa orizzontalità è dovuta evidentemente alla struttura della società, ma anche ai mezzi in cui l’italiano, e le altre lingue, circolano: la rete con il suo interscambio frenetico che tra l’altro avviene per scritto, e questo quando fino a pochi anni fa si dava per morta la scrittura. Questo potrebbe avere effetti sulla rapidità dei cambiamenti ma spesso è una rapidità apparente che riguarda mutamenti effimeri che si esauriscono in fretta perché riguardano solo la superficie ma non toccano il nucleo dell’italiano.
Insomma, la lingua la fanno i parlanti.
Questo è sempre stato vero ma ci sono stati, nei diversi momenti della storia e nelle diverse lingue, delle entità che erano dei punti di riferimento: pensiamo alle corti reali o alle accademie. Oggi questa verticalità si è indebolita. Va detto che rispetto alle altre lingue europee l’italiano ha storicamente avuto una maggiore libertà, visto che per lungo tempo non c’è stata una corte reale e neanche una capitale, inoltre l’Accademia della crusca ha un ruolo diverso dalle istituzioni analoghe di altri Paesi.
Questo aspetto, che la lingua la facciano i parlanti, spesso è assente nel dibattito sul linguaggio inclusivo, quando si invoca, o si teme, un ‘intervento dall’alto’.
Quando si parla di inclusività, e in generale di rivendicazioni legate agli aspetti più politici della lingua, occorre secondo me fare una distinzione importante. Da una parte ci sono i mutamenti che riguardano le parole: il lessico è in una certa misura sotto il nostro controllo perché ognuno di noi sceglie quali parole usare e quali non usare, soprattutto quando scrive. Per cui è possibile decidere, ad esempio, che quello che abbiamo sempre chiamato ‘spazzino’ da oggi si chiama ‘operatore ecologico’ e una autorità politica può anche decidere che in tutti i documenti ufficiali si scriverà ‘operatore ecologico’ invece di ‘spazzino’. Alla fine il successo lo stabiliranno i parlanti, ma su questi aspetti è possibile prendere delle decisioni consapevoli. Quello che invece mi lascia perplesso è che oggi si sente parlare spesso di modifiche che riguardano elementi grammaticali. Non più la superficie della lingua ma aspetti profondi: introdurre un nuovo genere grammaticale, alternativo al maschile e al femminile, è molto diverso dall’introdurre un nuovo termine. Nella storia delle lingue non è mai successo che una struttura grammaticale venisse cambiata in maniera consapevole. Il latino aveva tre generi, maschile, femminile e neutro, l’italiano ha perso il neutro ma nessuno lo ha deciso, è stato un mutamento linguistico molto lento. I linguisti dicono che la struttura grammaticale si modifica in maniera superindividuale, cioè al di sopra del singolo individuo, e irriflessa, cioè senza che i parlanti se ne rendano conto.
Questo dei cambiamenti profondi è un tema interessante pensando all’influenza dell’inglese che si manifesta non solo tramite parole straniere, ma anche con espressioni quali ‘sentiti libero di’ (feel free) o ‘il problema con’. Non sono cambiamenti profondi come un nuovo genere grammaticale, ma neanche superficiali come una singola parola.
Sì, possono attirare maggiormente l’attenzione del parlante attento ma non sono poi così profondi: anche un’espressione che adesso consideriamo normale come ‘buono a sapersi’ è arrivata dal francese, ma è un francesismo che si è integrato nell’italiano. Oggi di queste interferenze dall’inglese ce ne sono molte, ma non rimettono in discussione l’impianto della grammatica italiana. Anche a darla vinta a tutte queste costruzioni, non dovremmo riscrivere nessun capitolo della grammatica italiana. Quello che è importante è un principio che io stesso cerco di applicare quando parlo o scrivo: essere consapevoli delle parole e delle espressioni che utilizziamo. Soprattutto, cercare di capire se le utilizziamo per pigrizia oppure se è una scelta deliberata. Perché se è pigrizia, se non si sa perché si è usata quella parola, allora è un brutto segno per la cultura degli italofoni.
Riassumendo, possiamo dire che l’italiano è sempre cambiato, adesso sta cambiando con modalità differenti ma l’attenzione, più che verso l’inglese, dovrebbe essere rivolta alle nostre scelte di parlanti.
Sì, e aggiungo una cosa: non dobbiamo preoccuparci troppo dei cambiamenti linguistici perché le uniche lingue che non cambiano sono le lingue morte. Una lingua viva muta, anche se in direzioni che magari non ci piacciono.