Sabato a Lugano primo appuntamento dell’associazione Essere a scuola. Intervista a uno dei relatori, il filosofo dell’educazione Eirick Prairat
Tra autorità e libertà, si terrà domani il primo convegno di Essere a scuola, un’associazione di recente fondazione che ha come scopo promuovere una visione non settoriale della scuola, rivolgendosi non solo agli “addetti ai lavori” ma alla società in generale.
L’appuntamento di sabato all’Auditorium dell’Usi a Lugano sarà strutturato in due momenti: al mattino a partire dalle 9.30, dopo l’introduzione dei membri di comitato Claudio Mésoniat e Fabio Camponovo, vi saranno gli interventi di due studiosi: Eirick Prairat, professore di filosofia dell’educazione all’Università della Lorena e lo psicoanalista Umberto Galimberti. Nel pomeriggio, invece, vi saranno gli interventi di alcuni docenti e di un rappresentante dei genitori che presenteranno la loro esperienza.
Abbiamo posto alcune domande a Eirick Prairat, il cui intervento si intitola ‘L’autorità dell’insegnante oggi’.
Professor Prairat, il suo discorso è incentrato sul concetto di autorità che, oggi, ha una connotazione parzialmente negativa, rimandando all’autoritarismo, all’abuso di potere. Lei che cosa intende?
L’autorità è un’arte di guidare, di accompagnare. Quella dell’educatore, del professore è una autorità – con la a minuscola – che è lì per aiutare l’allievo, il “nuovo arrivato” come diceva la filosofa Hannah Arendt, a domare quelle Autorità – con la A maiuscola – che sono la Cultura, le Opere, il Saper Fare, la Conoscenza... Mi piace quanto afferma il filosofo inglese John Locke: l’insegnante è colui che “apre delicatamente la scena del mondo”. E se c’è una parola da sottolineare in questa bella frase è il piccolo avverbio “delicatamente”: delicatamente l’insegnante rende la cultura accessibile; delicatamente rende i codici e le usanze familiari; delicatamente, rende il mondo vicino e leggibile. L’autorità è l’iniziazione, l’autorità è un invito a entrare nel mondo. In questo senso, l’autorità ha poco a che fare con l’autoritarismo.
Questo modello dell’autorità è compatibile con una pedagogia incentrata sullo studente e sull’attività pratica?
Certamente, perché non c’è insegnamento, non c’è educazione senza l’esercizio di una qualche forma di autorità. Educare è autorizzare. Autorizzare a crescere, a imparare, a sbagliare, a sperimentare, a scoprire… E crescere è sentirsi autorizzati, sentirsi gradualmente e progressivamente autorizzati. Ciò che i moderni detrattori dell’autorità dimenticano è questa verità antropologica essenziale e decisiva: non ci autorizziamo mai da soli a essere contemporanei al mondo. La questione pro o contro l’autorità è un falso dibattito.
Quello che dobbiamo capire è che l’autorità dell’insegnante sta cambiando. In passato, era sufficiente avere il titolo di professore per essere riconosciuto come un’autorità. Oggi l’appartenenza istituzionale conta ancora, certo, ma non è più sufficiente. Sono anche necessarie la competenza nell’arte dell’insegnamento e la capacità di farsi valere dal punto di vista etico. L’autorità di domani sarà un’autorità etica. Nei miei lavori affermo che l’etica dell’insegnamento deve basarsi su tre virtù: la giustizia, la benevolenza e il tatto. Sì, il tatto: è una piccola virtù, quasi invisibile, ma è essenziale. Avere tatto significa sapersi adattare alla situazione particolare in cui si vive. Il tatto è la virtù di come si fanno le cose, di come si dicono. È la preoccupazione di non danneggiare la relazione. L’autorità non è dunque un modo di comandare, ma un’arte di mettere in moto, di coinvolgimento nel senso dello psicologo americano Jerome Bruner.
Un tempo a educare erano solo famiglia e scuola. Oggi, con vecchi e nuovi media, la situazione è più complessa: questo “pluralismo educativo” gioca un ruolo in quello che lei chiama “erosione dell’autorità”?
Effettivamente penso che vi sia un’erosione dell’autorità dei professori. Preferisco parlare di erosione piuttosto che di crisi perché quest’ultima rimanda a una dimensione di urgenza mentre l’idea di erosione fa riferimento a una temporalità più lenta. E l’erosione dell’autorità degli insegnanti si sta svolgendo lentamente, da tre o quattro decenni a questa parte. È importante capire che non viviamo in società in cui l’autorità tende a scomparire ma, al contrario, in società in cui le forme di autorità si moltiplicano. Autorità della moda, del consumo, delle reti sociali, della pubblicità… Come si vede, la scuola è esposta a una concorrenza formidabile che spesso è una concorrenza sleale perché queste autorità sono autorità senza volto. Non parlerei tuttavia di “pluralismo educativo” perché spesso si tratta di autorità che spacciano anche falsità.
In questo nuovo contesto, quale pensa sia il ruolo della scuola?
La scuola ha tre missioni principali, tutte alla pari: non si può dire che una sia più importante delle altre. La prima è quella di trasmettere la conoscenza e la cultura. Trasmettere un patrimonio, potremmo dire. La seconda missione è quella di formare un cittadino, un ‘homo politicus’, colui che metterà il suo grano di sale nei dibattiti pubblici e politici. Da qui l’importanza del pensiero critico in un’epoca di fake news e teorie della cospirazione. Già da diversi decenni, negli Stati Uniti degli psicologi cognitivi di rilievo (R. Ammirati, M. Bond, G. Gigerenzer, K. Landfield, S.O. Lilienfeld, B.A. Mellers…) insistono perché nelle scuole si introducano dei programmi di pensiero critico. Perché le nostre società sono tanto società della conoscenza quanto società della disinformazione. Lo vediamo ogni giorno con la crisi sanitaria che stiamo vivendo.
Infine, le scuole devono preparare gli studenti a entrare in un mondo del lavoro che cambia, che è in ogni caso molto più instabile di quanto non fosse fino a poco tempo fa. Le scuole non sono mai state così importanti e noi dobbiamo proteggerle e dar loro i mezzi per compiere le loro missioni.