Società

Basta utero in affitto, India vieta business milionario

L'India era uno dei rari paesi al mondo dove le donne potevano affittare il proprio corpo per partorire figli di sconosciuti

Ti-Press
6 agosto 2019
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Mai più indiane sfruttate, costrette ad affittare l'utero: la Camera bassa, il Parlamento indiano, ha vietato definitivamente la pratica della maternità surrogata dietro compenso.

L'India era uno dei rari paesi al mondo, oltre alla Russia, all'Ucraina e allo stato della California, dove le donne potevano affittare il proprio corpo per partorire figli di sconosciuti. D'ora in poi, la maternità surrogata sarà possibile solo come scelta altruistica, un dono senza scambio di denaro, e ammessa solo per gli indiani, nell'ambito della famiglia.

La legge permette, infatti, di accedere all'utero in prestito solo alle coppie sposate da almeno 5 anni, senza figli. E prescrive che la donna che porterà a termine la gravidanza sia sorella, cognata, zia o cugina, di uno dei due aspiranti genitori.

Dal 2002, quando l'utero in affitto fu autorizzato da un vuoto legislativo, l'India era diventata una delle destinazioni più gettonate dei viaggi internazionali della fertilità, un hub mondiale del turismo procreativo. Coppie e single in cerca di figli arrivavano nelle tremila cliniche sorte nel paese, attratti delle garanzie sanitarie promesse da organizzazioni internazionali, che facevano affari d'oro, mettendo in contatto le indiane in età fertile con gli aspiranti genitori.

Nel 2012, uno studio commissionato dalle Nazioni Unte aveva stimato il giro d'affari annuale di questo business intorno ai 400 milioni di dollari, e aveva calcolato che circa 25 mila bambini nascessero ogni anno dalle 'madri a metà'. Il Gujarat era lo stato in cui le fabbriche dei figli a pagamento, le "cliniche del grande desiderio, akanksha", nella lingua locale, erano più numerose: le madri vi trascorrevano i nove mesi della gravidanza, costantemente controllate.

Una delle strutture più famose si trova ad Anand, regno della dottoressa Nayana Patel, oggi scatenata contro la nuova legge: "Da noi le donne sono pagate fino a 400mila rupie, 5 mila euro", dice, "una fortuna, paragonata agli stipendi medi dell'India. E ricevono attenzione costante per loro salute, anche psicologica, oltre che per quella del bambino". Ma la media dei compensi per le "madri a metà" era, in realtà, molto più bassa, intorno agli 875 euro e la decisione non era quasi mai libera, sempre dettata da costrizioni economiche.

La legge che pone fine a questo sfruttamento si deve a Jayashree Wad, una battagliera avvocatessa ottantenne: è stata lei, nel 2015, a lanciare una crociata contro il business della fertilità, coinvolgendo la Corte Suprema indiana, che ha imposto al Governo di impedirlo. Fino alla vittoria di oggi.